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Harleywood: viaggio in bici verso l'Austria

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L’esperimento può dirsi riuscito in quanto alle mie domande ho trovato le risposte che cercavo, affrontando le difficoltà che sospettavo nel pernottare in tenda durante il percorso.

Partito alle 17.00 di giovedì 5 settembre, ho dato corpo al frullare di adrenalina. Questo è stato il primo passo verso la preparazione della “Mille Miglia” che vorrei tentare il prossimo anno da Londra a Roma e volevo capire se fosse possibile risparmiare sul costo dei pernottamenti che in media pesano sui 40 euro a notte. Durante il giro della Svizzera di questa estate ho preso delle batoste pesanti arrivando a pagare anche 80 euro per una stanzetta a Nyon, quindi mi ero proposto di arrangiarmi con la tenda al seguito. Su una tratta come una mille miglia , i pernotti potrebbero essere una ventina e i conti son presto fatti, conviene forse andare in crociera, magari accontentando colei che non pedala. Ma a lei penserò comunque.

La bici è un’altra cosa, è mente che raggiunge un posto che esiste finchè lo si pensa.

 
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Viaggiare in bici... con tenda: cosa portare!?

 
Avevo già la tenda, una soluzione comoda, rapida e discretamente leggera, si monta a scatto, è come un ombrello, tutta già assemblata, si apre, si appoggia al pavimento e si picchetta. Il materasso invece era quello rosso e blu da mare, di plasticona pesante e per gonfiarlo serve una pompa, perché i polmoni rischiano enfisemi ed embolie. Quindi da Decathlon ho preso un materassino auto gonfiante spesso tre centimetri leggero e poco ingombrante e per completare il corredo notte, un sacco a pelo più tecnico di quella miserrima copertina che avevo in cantina.
Mi sono fatto una cultura sul grado termico dei sacchi e, raggiungendo un buon compromesso tra costo e temperatura confort, ne ho preso uno che sopporta i 10 gradi. Pensavo che, anche tenendo conto delle previsioni, quello doveva essere la scelta ottimale. Ho cercato di mantenere il carico più leggero possibile portando soltanto l’ indispensabile, ma avevo un annoso problema che mi assillava, quello delle ricariche delle batterie del cellulare e della macchina fotografica.
Nelle stanze degli alberghi ricaricare le pile è la prima cosa a cui ottempero, ma fuori, campeggiando liberamente risulta impossibile.
Soluzione uno: usare il meno possibile l’ elettronica.
Soluzione due: elemosinare corrente nei bar dove prendo il caffè.
Soluzione tre: prendere delle batterie aggiuntive.
Purtroppo nessuna delle tre scelte è adatto allo scopo perché le foto le faccio comunque e uso il cellulare anche come gps, nei bar posso chiedere di ricaricare o una o l’altra cosa e per un tempo limitato e anche le batterie supplementari si esauriscono nell’economia di un viaggio lungo.
L’unica alternativa è quella di appoggiarsi ai campeggi dove solitamente alla piazzola danno l’ ausilio di una presa di corrente. Su questo dettaglio avevo altre perplessità, perché consultando mappe di tutti i tipi, avevo notato che larghe porzioni di territorio sono sprovviste di campeggio.
Ad esempio, non ce ne sono nella tratta che va da Gorizia fino al confine tranne uno a Gemona e non ne ho trovato nessuno nemmeno in Austria fino al Faaker See. A dire il vero, la mappa ne indicava uno in un posto ma risultava chiuso da anni. Mi sono lo stesso procurato una piccola prolunga confidando di trovare dove allacciarla. Pensavo di attrezzare la bicicletta con la dinamo nel mozzo, ma trasformare l’ energia prodotta in qualcosa che vada bene per il telefono è avveniristico, non ci sono kit molto affidabili e tutto è improvvisato, senza contare che la dinamo ha il suo peso e che frena la ruota anche quando non serve energia. Esiste un modello proposto dalla SP che si può disinserire meccanicamente, ma il costo supera ogni mia fantasia. E comunque l’idea di una bici elettrificata, non mi va, mi sembra di tradire il concetto di spartanità ed essenzialità. Comunque sia, considerando la brevità del viaggio, ho optato per una batteria aggiuntiva e usato costantemente la funzione di stand-by (modalità aereo) sul telefono. Quindi, tutto pronto, bici assettata con due borse dietro e due sacche piccole sul portapacchi anteriore. Sopra le borse, legati con un elastico , la tenda, il materassino e il sacco a pelo. Davanti a sinistra il necessario per la pioggia e a destra, deposito vivande.
 

Si parte con 32 chili di bici

 
32 chili di bici, un bisonte a pedali che sbuffa e muggisce come il sottoscritto ad ogni accenno di salita, ma sono adrenalinico e sfidante, quindi pompando i quadricipiti spingevo per 45 km da Trieste fino a una zona indefinita nel Manzanese, sulla strada statale che porta a Udine.
Per tutto il percorso, valutavo prati e spiazzi. Non volevo fermarmi nei centri per non attirare le ire di qualche villico, ma nemmeno tenermi infrattato nella boscaglia rischiando di essere isolato e preda di qualche malintenzionato. Continuando a pedalare nell’indecisione si era fatto buio fino a quando ho trovato una radura erbosa davanti a una fabbrica dismessa in fianco alla statale, con una fila di alberi che sembrava messa li apposta per darmi riparo dalla vista di chi fosse passato. Detto fatto. Ho montato il mio campo e consumato la cena che mi ero comperato in un supermercato di Sagrado.
Alle sei del mattino ho smesso di far finta di dormire e uscendo dalla tenda ho sentito le articolazioni applaudire e fare la ola per la fine della nottata.
Era sufficientemente comodo il giaciglio ma la scelta di stare vicino alla strada aveva penalizzato la tranquillità perché i fari entravano forti all’interno e il rumore dei camion era un continuo rombare tra le orecchie. Avrò dormito circa tre o quattro ore e speravo fossero sufficienti per consentirmi di arrivare più in alto possibile. Ho smontato il campo e sono partito circa 15 minuti dopo a caccia di un bar aperto per fare colazione. Sentivo l’esigenza di fare una doccia, come se fosse una dipendenza da cui non ci si stacca, come il vizio di fumare, ma mi dovevo tenere la voglia e cercare di lavarmi a pezzi nel lavandino del retro del bar. Risvegliato totalmente, ho inforcato la bici per rotolare copertoni verso nord.
Complice un venticello leggero alle spalle, ho percorso una ventina di chilometri verso Udine in scioltezza, a una velocità di catena di 25km/h, passando il centro abitato sul lato est uscendo a nord sulla strada statale 13 per Tarvisio. Le buche si facevano sentire nel centro città costringendomi a un continuo slalom tra tombini e graticole infastidendo gli automobilisti che vedono usurpato il loro diritto all’uso esclusivo di ogni centimetro d’asfalto. Da Tricesimo in poi, si facevano sempre più frequenti i sorpassi di moto che puntavano nella mia stessa direzione, e la mia risposta al rombo era sempre quella : piano piano arrivo anch’io!
Siccome sono molto furbo e navigatore indefesso, leggendo la mappa, scorgevo che nei pressi di Gemona la statale compie una curva che allunga di qualcosa il percorso tagliando fuori Magnano in Riviera , Artegna e la stessa Gemona, quindi deviando dal tracciato mi sono avventurato in una strada che portava a fare una bella e appagante salita fino al Duomo. L’edificio ha subito, nel terremoto del 1976, danni che potevano sembrare irreversibili perché le fondamenta poggiavano su un terreno ghiaioso che è scivolato verso valle inclinando la struttura intera. Gli ingegneri, decisero di non raddrizzarlo, ma di fortificare fondamenta e colonne così come stavano. E’ in assoluto la chiesa più storta che abbia mai visto! Sul sagrato ho avuto una vista impagabile sulla pianura sottostante, ma anche un fiatone a reazione che fiammeggiava tra le guance.
 

Da Gemona verso nord...

 
Da quel momento la linea rossa della statale sulla mappa sarebbe stata il mio vangelo. Percorsi ancora una decina di chilometri tenendo sulla sinistra il brillare delle acque turchesi del Tagliamento per entrare nella cittadina di Venzone, monumento nazionale che fu raso al suolo dal sisma che colpì il Friuli e completamente ricostruito rispettando l’ originalità dei muri in pietra bianca della doppia cinta muraria e gli edifici da essa protetti. Spesso diventa sede di manifestazioni folkloristiche e rievocative richiamando un gran numero di ospiti, ma in questa occasione sono riuscito a godere del silenzio tra i vicoli pedalando tra i negozi di lavanda nella quiete di un giorno qualunque. Erano le 11 e 30 e contavo di arrivare a Resiutta verso l’ ora di pranzo sapendo che ai lati della strada, ci sono alcuni ristoranti famosi per la bontà dei polli che arrostiscono in bella vista. Uscito da Venzone, tallonavo ancora il lato del Tagliamento che a Chiavris diventa il Fella accompagnandomi per 54 km fino a Malborghetto in val Bruna. Iniziavo a percorrere il Canal del Ferro, la vallata che separa le alpi Carniche ad ovest da quelle Giulie ad est e anche se sono in costante leggera salita, il panorama ripaga l’impegno. Dopo Moggio Udinese, la fame si alleava con l’appetito e allegramente arrivavo a Resiutta che non tradiva le mie aspettative accogliendomi tra volute di fumo pollastro. Prima di sedermi, chiesi cortesemente al ristoratore di allacciare il telefono alla presa per ricaricare almeno un po’ la batteria andando a godermi sul terrazzo il passaggio delle Harley, diventato una costante. Scese al parcheggio un’intera tribù di romani per pranzare.
Curavano la sosta, tolglievano i moschini spiaccicati con i fazzolettini di carta che le signore di retrosella porgevano solerti. Si confrontavano le moto, commentavano la strada e mentre le miss ritoccano il trucco piegate davanti agli specchietti a forma di croce celtica, gli easy rider si sistemavano il pacco con non chalance, stiracchiando le gambe, portano le mani ai lombi e con smorfie maschie drizzavano le vertebre scricchiolanti.
Le mie gambe guardavano la scena e commentavano tra loro sottovoce che in effetti dovevano fare ancora un ottantina di chilometri. In quel momento realizzavo che la mia bici ha un motore bicilindrico che va a pollo arrosto. Aspettando che mi venisse servito il pranzo, facevo il punto consultando mappe e orologio cercando di capire dove poter mettere la bandierina sulla carta. Volevo ostinatamente passare il confine e cercare in Austria il campeggio dove riposarmi, ma il primo triangolino rosso che indicava il campeggio, si trovava disegnato nei pressi di Pokau a una ventina di chilometri dal confine. Scorrendo con l’indice verso destra osservavo che con un ulteriore sforzo, avrei potuto arrivare al luogo del motoraduno rendendo la sera accattivante molto più che sostando tra i boschi solitari di un campeggio da eremiti. Supposizioni che misuravano teoremi, fino a quando ho pensato fosse meglio andare a sensazioni affrontando il percorso.
 
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Carburante= pollo | In bici sulle ciclabile Alpe Adria

 
Dopo aver pagato e ripreso il telefono, sono ripartito imboccando la ciclabile Alpe Adria che ha il suo ingresso posto davanti al ristorante.
Era un piacevole susseguirsi di gallerie illuminate e bosco che cammina parallelamente alla statale. Si passava su ponti ferroviari imponenti che scavalcano il Fella in più punti, riadattati al transito delle biciclette. La salita era costante, senza pause di recupero, ma abbordabile da chiunque.
Devo purtroppo segnalare che non ci sono indicazioni che conducono agli ingressi della ciclopista e che questi ultimi scarseggiano e da più punti di osservazione mi è capitato di vedere cicloturisti che guardano verso i ponti cercando di capire come salire sul percorso.
A Dogna trovavo la ciclopista sbarrata da una transenna con un cartello che motivava la chiusura per il pericolo di caduta massi. Avrei dovuto percorrere a ritroso tutta la strada e ricominciare daccapo e quindi incurante della segnalazione passavo avanti e procedevo, anche se con maggiore cautela. Pedalavo su un percorso imperdibile fatto di ponti sospesi e gallerie e all’uscita di una di queste trovai i segni di uno smottamento della montagna sull’asfalto. Alle fine erano poca cosa, dribblai le pietre e proseguii fino a quando trovai un nuovo sbarramento della ciclopista nei pressi di un tunnel dove erano terminati i fondi per la risistemazione del percorso. Scesi una scalinata di tronchi accompagnando la bici giù per lo scivolo stando attento a non cadere arrivando a una strada che sboccava sulla statale perdendo la via della ciclabile. La ritrovai dovendo fare tre tornanti simpaticissimi che dopo 50 metri di quota mi consentivano di fare un chilometro di pista che finiva di nuovo, questa volta in una stazione abbandonata.
Superata un’altra discesa decisi di proseguire sulla statale che era sicuramente più fluida e disponeva di una corsia di sosta ai lati sufficientemente larga da consentirmi di pedalare in tutta sicurezza.
Da Pontebba in poi il viavai continuo dei branchi di motociclisti era divertente e teneva compagnia transitando nella val Canal dove alternavo molto spesso la pedalata in piedi a quella da seduto per spezzare una salita a 17 km/h che a tratti impegnava le gambe. A Malborghetto mi concedevo mezz’ora di pausa e tra una chiacchiera e l’altra con i clienti del bar mi informavo sui prezzi delle stanze delle strutture della zona.
Praticavano prezzi a persona, trenta euro circa, ma considerando che ero da solo non ci pensavano nemmeno a darmi la stanza per meno di cinquanta. Un'eresia! Fortunatamente non ne avevo bisogno e la mia curiosità era soddisfatta alleggerendo il pensiero dei costi con la consapevolezza di essere autonomo. Ripartivo scollinando a Camporosso arrivando a Tarvisio da una discesa defaticante, pedalando in scioltezza per tratti dove raggiungevo i 40 all’ ora. Pensavo già al ritorno quando questa strada sarebbe stata inevitabilmente in salita. Ripresi la ciclovia passando di fianco alla stazione ferroviaria di Tarvisio abbandonata da quando il percorso è stato deviato su una nuova direttrice, una struttura immensa lasciata a se stessa, condannata al degrado che distrugge lentamente. Tutto attorno altre costruzioni e piccoli edifici di servizio all’ ex scalo subiscono la stessa sorte , preda di vandali e delle intemperie. Potrebbero essere usate in mille modi diversi queste risorse, ma si preferisce un abbandono dimentico.
Sogno e immagino un ostello per cicloturisti, una base di partenza per escursioni tra le valli a ridosso del confine, ma tutto si blocca quando si palesa ancora una volta l’ interruzione della strada ciclabile che rende evidente la totale mancanza di interesse nel dare continuità al disegno del tragitto dal mare al monte. La galleria era sbarrata, l’ ingresso seminascosto dall’edera che stendeva un pietoso sipario su una pista tanto reclamizzata e infine dimenticata. Strappai metri a un'uscita laterale inerpicandomi di nuovo fino alla statale e, desolato, vidi che anche questa era deviata sul versante destro del monte perché la galleria era chiusa al traffico per lavori di manutenzione.
 

Pensieri e pedalate fino in Austria

 
Poco male, pedalavo nel freso della foresta millenaria del tarvisiano e dopo tre chilometri arrivavo al confine di stato: il valico di Cocau. Soddisfatto, scattai una foto, consultavo il nuovo foglio di mappa e mi impedalavo in terra straniera.
La musica cambiava immediatamente volto: la strada era larga, piatta e disponeva sulla sinistra di una ciclabile a doppio senso di marcia.
L’erba del vicino non è sempre più verde, era semplicemente migliore. Avvertivo il cambiamento, dopo pochi metri e sentivo il dispiacere di constatare che la bicicletta in Italia non viene considerata nella giusta maniera mentre in altri paesi europei è messa tra i normali mezzi di trasporto, e quindi degna di avere lo spazio che merita. Troppo spesso la bicicletta viene vista come mezzo sportivo stravagante, invadente e pericoloso per macchine condotte da intransigenti piloti infastiditi da qualunque cosa possa rallentare il cammino. Era tutto in discesa, mi rilassai fino ad Arnoldstein dove in una gelateria condotta da italiani chiesi informazioni sull’esistenza di qualche campeggio in zona . Erano le tre del pomeriggio, avrei potuto pedalare ancora, ma non conoscendo la frequenza dei campeggi, mi ero preoccupato di informarmi. Infatti la signorina, molto gentile, interpellando il sindaco della cittadina che era seduto al tavolo a prendere il caffè con amici, confermò che in zona non c’era l’ombra di un campeggio fino a Faak am See.
Nemmeno quello di Pokau esisteva, chiuso per la scarsa affluenza di turisti già da un paio di stagioni. Non mi restava che proseguire e cercare soluzioni per strada.
I cartelli “Zimmer frei “ erano invitanti, freschi, sapevano di comodità e di lenzuola pulite, di doccia calda e colazione profumata, erano sirene sugli scogli della rinuncia all’esperimento tenda ai quali non volevo cedere per nessuna ragione. Spingevo la bici già da 120 km e la lucidità lasciava il posto a quella sorta di catarsi mentale, dove si ripetono mantra e ogni gesto diventa sonnambulismo a pedali. Il panorama si eclissava, la strada diventava infinita, le conquiste irrilevanti e contava soltanto arrivare alla fine della tappa. Finkenstein era la cittadina dove sostai in un supermercato per acquistare la cena, mi fermai per un quarto d’ora e mi risvegliai dal torpore perché mancavano soltanto 8 km al Faaker.
Ritrovavo lena, vigore, ascoltavo musica e pedalavo felice correndo a fianco del fiume ininterrotto di moto di ogni tipo. Sono un biciclettista, sfoggiavo forza e ammiravo le mie gambe, mi fermai davanti al monumento che ritrae una moto enorme in mezzo alla rotonda dove si svolta per arrivare al centro di questa follia collettiva, ingoiai un litro d’acqua ubriacandomi di dopamina ripartendo per gli ultimi metri. Passavo sotto i binari della ferrovia e realizzavo sorridendo dopo tanta fatica, che sarei potuto venire fino a qui in treno senza spendere nemmeno una goccia di sudore, fresco come una rosa. 145 km, bel risultato, ero contento, le gambe di legno, le mani rattrappite, ma felice come un masochista su questa sadica bicicletta.
 
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Un biciclettista... fra gli easy riders!

 
Ero al centro del parco, in mezzo al chiasso più assordante, pedalavo laddove rombavano e sulla destra, vicino a una giostra, si apriva uno spiazzo erboso dove i motociclisti aprivano le tende sistemandosi per la notte che stava scendendo. Ho approfittato del posto guizzando giù con la bici. Sono sceso e appoggiato la bici a terra, con le mani sui fianchi sono rimasto una decina di minuti ad ammirare il casino in mezzo al quale ero capitato.
Nessun servizio, nessuna doccia, nessun market. Solo la pompa di benzina 50 metri più in là invasa da metallo sellato, tutto completamente gratuito, in mezzo all’orda italiana che insegue il sogno americano. Infatti a destra e a manca dialetti nostrani, di campeggiatori d’occasione che leggevano istruzioni made in decathlon di tende acquistate da poco. Di fianco alla mia tenda gialla, sbocciavano infatti quattro igloo di due coppiette di romani che si sistemavano ognuno in un giaciglio diverso e dietro, tre ragazzi marchigiani che montavano un duomo al quale mancava solo il campanile. Noi italiani non eravamo che una delle pattuglie internazionali, le targhe sui mezzi indicavano provenienze da tutte le nazioni d’Europa.
Alla fine si conteranno più di centomila presenze e 75.000 moto distribuite sui 40.000 mq del villaggio Harley! Puzzavo. C’era poco da fare, ero sporco, appiccicoso e lercio e mi mancava lavarmi, quindi prendendo l’ asciugamano e il sapone, il borsello con i documenti e lo spazzolino andai al distributore in cerca di un bagno. Organizzazione. Questo era il life motiv del raduno. Bagni ovunque, personale del traffico, polizia che controllava, divertimento intelligente in un contesto festaiolo e alcoolico. Nello spiazzo del distributore avevano sistemato un bagno enorme, dove se non sono riuscito a fare la mia tanto agognata doccia, perlomeno mi sono potuto dare una bella ripulita.
La stanchezza frenava il mio entusiasmo, non vedevo l’ ora di stendermi e rilassarmi, ma in ogni momento qualcosa mi spingeva a visitare, guardare, assaggiare. Misi una tuta e scarpe da ginnastica, chiusi bici e tenda, entrando infine nel recinto della festa. Gli stand erano ridondanti di ogni tipo di gadget per motociclisti, di pezzi di ricambio, di moto straordinariamente belle, eleganti, aggressive, affascinanti e seducenti, altre virili e sprezzanti.
Sul palco principale si esibiva un sosia perfetto di Elvis Presley che mandava in visibilio il pubblico con un repertorio magnifico.
Decisamente fuori luogo il mio look sportivo tra giganti tatuati e giacche di pelle , tra stivali texani e anfibi militari, relegandomi al ruolo di ospite che osserva e visita come se il mio fosse un atteggiamento al di sopra di ogni possibile inserimento. Ed era quello che facevo. Assorbivo i modi e provavo a immaginarmi motociclista, cercando una moto che potesse piacermi , scegliendo un abbigliamento che mi vestisse come avrei voluto. Facevo i conti, e sono giunto alla conclusione che essere Harley costa un patrimonio. Una moto parte dai diecimila, una base che poi si può allestire in mille modi diversi personalizzandola con parti di motore, scarichi, selle, luci, borse e quant’altro. E tutto costa in modo proporzionale.
Per vestire uno che va su una Harley, si parte dai cinque-seicento euro. Poi se uno è un tantino esigente ( e lo sono tutti ), allora si arriva tranquillamente ai millecinque. Mantenere una moto così , è complicato perché è delicata, scarbura immediatamente, vibra e spesso spacca, se cade è un disastro, le officine dedicate non sono tantissime e costano parecchio. Ma in fondo, questo è il bello!
Questa è la meraviglia, che nonostante tutto sono tutti Harley! Un po’ come il ciclista, pazzo e un po’ idiota, che si ghiaccia d’inverno e si scioglie d’ estate, che corre in mezzo ai camion e si lancia in discesa con sette chili di carbonio tra le cosce, che si spacca le gambe su una salita arrivando su piazzali panoramici dove gli automobilisti ti guardano freschi e sconsolati con i bimbi in braccio.
Io e le mie barrette energetiche, loro e i manici delle birrette. Io e il mio cambio Shimano, loro e un manubrio alto un metro. Io e la mia giacca in wind stopper con fili d’argento e chiusure antiacqua, loro e le giacche in pelle di bufalo con le frange e gli alamari di denti di coccodrillo.
Io e la mia avventura, loro e la loro avventura. Festeggiano il loro essere tribù, sono la medesima manetta, vedono le stesse cose, annusano gli stessi viaggi. Anche nel cibo c’era una stravagante differenziazione e passavo da pietanze tipicamente orientali alla porchetta di Ariccia, dai wurstel giganti ai waffel al miele. Tendoni fumanti, stand stravaganti, brecciolino di legno a terra, birre che scendevano, tasso alccolico che saliva, musica infernale, note stonate, canzoni ritmate e moto, olio e cromo, catene e cinghie di gomma, pneumatici e cuoio.
Una Harleywood penetrante e avvolgente, dappertutto il chiasso ordinato della gente. Il mio fisico reclamava un orientamento orizzontale, sentivo il richiamo delle ancelle di Morfeo e l’ipnotico passo direzionarsi sul plastico di una meritata notte di sonno.
 

Notte fra Techno e Acdc

 
A pochi passi dalla tenda le casse della giostra sparavano musica techno, fischi e trombette, sirene e poi urla, le urla di coppie di pazzi che si facevano sparare per aria con una fionda alta trenta metri, urlavano ad ogni rimbalzo dell’elastico che tratteneva la palla che ingabbiava, urla di gioia per la fine di un incubo durato il tempo di dimostrato coraggio. 90° a sud, l’eco del concerto della tribute band ACDC, un basso pauroso, che faceva tremare ogni cosa, tappavo le orecchie, ma era il terreno che vibrava e il mio corpo che risuonava. E poi moto, accelerazioni strepitanti, fari sfolgoranti, grotteschi muggiti e trombe della cavalleria ad avvertire la carica dei nottambuli in festa. E allora compresi, che non sarebbe stata notte di sonno, ma sopravvivenza e dormiveglia. Ad un tratto mi giro sbattendo la testa per terra, rintronato cercavo il telefono per vedere l’ ora, erano le tre e la quiete stava recuperando sulla confusione. Faceva freddo ed ero rimasto scoperto, mi scappava la pipì. Uscendo sull’ erba bagnata di rugiada, uno spettacolo di notte mi avvolse, tende tutto attorno, come funghi di un pianeta alieno, gente che passava e luci soffuse dal parco della festa.
Ancora moto che passavano, ma lente e silenti, la giostra chiusa e da dentro le tende vicine evaporavano voci di chi nella notte sentiva ancora la voglia di commentare il tempo che passava. Tornato a sdraiarmi mi infilavo nel sacco a pelo chiudendomi dentro lasciando che un tepore diffuso mi accompagnasse nelle successive ore di sonno. La sveglia di buonora era come la precedente, mise fine a qualcosa di trascinato per i piedi ed ero contento fosse finita la notte anche se sentivo di avere accumulato un'ulteriore dose di stanchezza. Mi muovevo con il sacchetto da bagno tra la gente che si lavava i denti sul prato sputando acqua minerale e dentifricio, per arrivare al bagno del distributore dove incontravo amici di Trieste appena giunti in sella a uno scooter di grossa cilindrata. Ci salutammo e mi chiesero con che cosa fossi venuto al motoraduno e alla risposta:” Con la bici! “ mi dissero che ero fuori di testa. Salutai sorridendo entrando nel container che ospitava i bagni dove faticavo a fare le cose più semplici. Poi mi allentai iniziando a sentire la realtà a portata di cervello, tornai alla tenda, impacchettando le cose le legai alla bicicletta per uscire in fine dal prato. Seduto al tavolo di un bar con un caffè bollente e i biscotti davanti, sfogliavo le mappe per dare una direzione al sabato che si annunciava radioso.
 

Pedalate e scoperta

 
Decisi di fare il giro del lago di Ossiacher e di cercare un punto alla base del Gerlitzen, un monte da 1920 metri per provare ad attaccarlo. Pedalavo legato, impacciato dal peso, tramortito da due notti poco rilassate e quindi mi informai nei campeggi se ci fossero stati posti per la notte, se eventualmente avessi voluto ritornare al Faaker. I posti c’erano, una piazzola costava 17 euro e il campeggio era fornito di tutto, comprese le docce che ora per me erano diventate un ossessione. Ho impiegato un'ora per raggiungere un giro di gamba decente e la lucidità che mi ha consentito di gustare la meraviglia di paesaggio che si attraversa tra le montagne austriache. Poi c’erano sempre i motociclisti ad animare le strade . Arrivato verso le undici al lago Ossiacher mi fermai ad ammirare i piloti di parapendio che lanciatisi dalla cima del Gerlitzen planavano tra le correnti ascensionali fino a depositarsi al suolo in un campo sul lato della strada. Proseguii sul lato nord del lago calcando una ciclabile meravigliosa da dove sconfinavo di tanto in tanto sulla statale che iniziava a riempirsi di persone che si assiepavano per assistere alla Harley parade. Trovavo un grande dispiegamento di mezzi della polizia ad ogni incrocio a regolare il traffico, controllando che non ci fossero impedimenti allo svolgersi tranquillo della manifestazione.
Provai a salire alla stazione da dove parte la cabinovia che porta in cima alla montagna, ma non trovavo interessante la visita, distraente dalla pedalata che volevo fare insieme alle motociclette. In effetti mi era anche passata la voglia di fare scalate con la bicicletta carica come un mulo e le gambe che giravano come se fossero avvolte nella pellicola da cucina. La ciclabile era rilassante e stimolante, c’erano ville spettacolari che si affacciavano al lago. Lago che era percorso da una nutrita schiera di vogatori juniores che si stavano cimentando nelle gare del campionato europeo. Dettagli da immagazzinare, da godere, come gli alberi di mele ovunque stracarichi di frutta che nessuno si dava la pena di raccogliere, o i campeggi che ogni tanto si offrivano al transito tra viali che sembrano finti tanto erano perfetti. Risalii sulla statale, la carovana era partita, vedevo le moto della polizia lampeggianti a guidare la testa dell’ infinito codone che mi avrebbe serpeggiato per un quindicina di chilometri a fianco, sul lato sud del lago.
Una meraviglia rombante, piloti esuberanti vestiti in modo divertente , certi avevano veri costumi carnevaleschi, una buona percentuale girava senza casco, ma tutti andavano a una velocità che non superava i 40 all’ ora. Pensavo che se lo avessero organizzato nella mia città,  sarebbe stato impossibile trovare il giusto compromesso con le forze dell’ordine locali, solerti nell’ appioppare contravvenzioni anche ai ciclisti che non vanno sulle ciclabili o che parcheggiano sui marciapiedi.
Qui in Austria le forze dell’ordine dimostravano intelligenza ed elasticità sospendendo temporaneamente regole castranti ottenendo in cambio un comportamento cosciente e responsabile da chi invece ti aspetteresti di ricevere spregiudicatezza e arroganza. E il risultato era quello che mi scorreva a fianco, una festa dei motori senza gli eccessi pericolosi di gente fuori controllo. Un regolamento di autodisciplina sembrava andare oltre a quello che normalmente viene imposto per legge. Nota a latere: non saprei dire se durante questi giorni sia stata consumata più benzina o birra, ma non ho comunque visto nessun ubriaco molesto. Il pubblico ai lati della strada si era organizzato con tavoli e sedie, arrostiva carne e offriva ai motociclisti ristoro di bionde spumeggianti, e tutto era un sorridere e applaudire in risposta a sfollate rumorose e trombe in festa. Navigavo per i saliscendi dolci del lago Ossiacher e infine presi la direzione del Faaker.
Passai il fiume Drau e dopo un brevissimo tratto pianeggiante mi ritrovai alla rotonda di Saint Niklas da dove decolla la salitona da purgatorio che porta ai colli che circondano il lago che ospita la manifestazione. Volantina piccola davanti, rapporto cortissimo dietro. Decisi che non avrei potuto fregiarmi del titolo di ciclista se avessi messo i piedi a erra prima di scollinare.
Controllavo il respiro, gestivo le gambe sullo step in movimento. Il marciapiede che ospitava la ciclabile era stretto e sconnesso in alcuni punti e la ruota dietro si incapricciava sulle fessure dell’ asfalto, ogni tanto passavo pedoni che avvertivo a suon di scampanellate affinchè non mi costringessero a una resa. Una riga di sudore fastidiosa scese dalla fronte a solleticare il naso, con uno sbuffo nervoso lo vaporizzai.
 
Ero a ritmo, tutto procedeva, la strada si nascondeva dietro una curva infinita senza darmi un traguardo definito fino alla sommità ad un incrocio bello come un harem di donne sorridenti. In mezzo alla strada lo stand della Red Bull prometteva di mettermi le ali, che allora non serviano, perché strisciando la mano sulla fronte, mi asciugavo il sudore e godevo di una discesa defaticante verso uno dei campeggi. Erano le 18.00, il serbatoio era agli sgoccioli, avevo bisogno di un tagliando e di un garage per la notte, il veicolo ciclumano necessitava di rigenerazione. Attorno al lago c’era il caos più completo, mi districavo nella bolgia metallica arrivando infine affannato al campeggio Arneitz nella speranza di trovare qualche posticino dove piantare la tenda. Si, c’era posto! Alla reception un solerte ragazzo mi organizzò la sosta indicandomi la piazzola dove in un lampo slegai i bagagli, montai la tenda e allacciai la corrente per l’ elettronica. Dopo aver regolato i 14 euro alla cassa, presi asciugamano e shampoo e con calma mi diressi alle docce gustando ad ogni passo la sensazione che da li a poco avrei lavato via il maiale che si era ingroppato sulla mia schiena. L’acqua era abbondante, calda, lo shampoo profumato, le gambe si annichilivano alla piacevolezza del fluido che scorreva dalla testa verso i piedi nudi sulle piastrelle della doccia. Finalmente rinfrancato potevo andare a mettermi qualcosa di pulito e comodo per immergermi ancora nel variopinto universo Harley.
 
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Altra notte, altra musica

 
E’ stata la nottata del concerto di una tribute band di Bon Jovi e di una dei Guns N’ Roses. Ho cenato al self service del campeggio, servitissimo di ogni genere di pietanza pagando 13 euro assistendo agli spettacoli seduto ai tavoli nel tendone. Poco dopo la mezzanotte ho ceduto alle ostilità e convenuto con le divinità del sonno di donargli il mio tempo per almeno sette ore in cambio di vigore ricostituente. Scaduto il contratto, sono sceso dall’olimpico tempio percependo al fletter delle cosce che le divinità nulla avevano speso per darmi il rimedio pattuito. Affidavo a una doccia mattutina la pronta ripresa e alle 6 e 30 ero già sotto il getto d’acqua. Mezz’ora dopo ero già pronto alla partenza accompagnando la bicicletta fuori dal camping mentre una folla di zombie convergeva verso i bagni e al balsamico odore di foresta carinziana aggiungevo quello di una sostanziosa colazione a base di cornetto e cappuccino. Seduto al tavolo del self service, guardavo distrattamente la mappa che inquadrava l’Austria e un pezzettino d’Italia oltre Tarvisio. La mia intenzione era quella di arrivare a casa in giornata, senza tappa notturna, tentando di colmare l’intera distanza di 198 km.
Ma era un'intenzione, sapevo che non avrei potuto sforzarmi oltre il consentito e che in ogni momento un treno avrebbe potuto essere utile al mio rientro. Oltretutto scorrendo la pagina del meteo, notavo che per la giornata le previsioni erano molto rassicuranti, mentre per lunedì si ipotizzava che giove pluvio avrebbe fatto sfoggio di generosità riversando sul Friuli cataratte d’acqua. Quindi l’ipotesi di passare una notte in tenda con quel dubbio non mi rallegrava e nemmeno immaginarmi zuppo d’acqua a fare bici nautica in un mare di pannocchie. Ero inabissato nel mio sogno ad occhi aperti e improvvisamente riemersi dall’alta marea al tuono di una spotster 1200 che scaldava gli scarichi prima di ripartire. Seguivo la moto percorrere la curva secca che dal campeggio immetteva nella viabilità e la schiena dell’easy rider che filava lungo la stessa strada che avrei pedalato.
 
Il motoraduno per me era finito, come finiscono tutte le cose. Finiscono con le ultime forchettate di gustose pietanze, i sogni belli e anche quelli brutti, finiscono i tramonti, finiscono amori immortali, finisce la bici in cantina dopo un viaggio, finisce una malattia dopo la cura, finisce l’ orario di lavoro e lo studente i compiti. Spesso finire è la conclusione di qualcosa, altre volte è l’ interruzione involontaria di un movimento che rimane incompleto.
Per me era semplicemente arrivato il momento di ritornare. Ero felice di rimettermi in viaggio dopo l’esperimento tenda, dopo l’ esperienza nella terra straniera di due ruote a motore per me abituato a ruote a pedali. Bagaglio pesante, controllato e ben fissato, vestivo con la giacca ben chiusa per attutire la sensazione di freddo che spazzolava la mia criniera stempiata. Arrivavo alla rotonda dove si erge il monumento alle moto aggirandolo per partire lasciando alle spalle qualsiasi altra cosa non fosse che viaggio. Con la musica nelle orecchie i pedali assumono la cadenza del tempo che batte e diventano metronomo dell’umore, regolando il giro, la velocità e la potenza. Melodia lenta pedalando in piedi, battute veloci per una seduta di sellaterapia. Valico il confine velocemente, anche se mi passano mezzi di ogni genere: un ciclista carbonico, un vecchietto con l’ elettrobike, un trattore, una harley a tre ruote. Non c’era fretta, di strada ne avevo tanta e il sole iniziava a scaldare permettendomi di togliere la giacca.
 

Si torna verso casa...

 
Tornare a casa, non equivaleva a fare tutto il tragitto in discesa, incontravo continui strappi , e anche una bella salita da Tarvisio fino a Malborghetto, poi discesa, pedalata sciolta di nuovo nella val Canale e nel Canal del Ferro, gustando clima e panorama. Giunto a Gemona, iniziava una pianura lenta e immensa, un piatto dove non riuscivo a superare i 25 km all’ora. La stanchezza emergeva dal fondo del serbatoio e sentivo gli occhi chiudersi, la concentrazione farsi scarsa. Pedalavo come un automa, cercando di capire dalle scarse indicazioni dove fossi, come organizzarmi mentalmente sulle distanze. La fame si irradiava dall’ombelico fino alla periferia e di punti di ristoro non ne incontravo. Ambivo di fermarmi al centro commerciale Alpe Adria a Cassacco, ma la domenica decretava una chiusa che per me era una seccatura immensa, tutto si amplificava. Mi fermavo ad un ristorante per una sosta di riflessione, di raccoglimento di idee. Davanti a una carbonara profumata e appetitosa, a piedi scalzi sul marmo, giungevo a una conclusione determinata e sicura: a Udine avrei preso un treno per Trieste. Sarebbe stata un’inutile fatica fare ancora settanta chilometri con gli strappi finali della costiera triestina. Erano le due del pomeriggio, avrei dovuto pedalare come minino 4 ore, fare qualche pausa per recuperare, arrivando a casa alle otto, con il buio, stanco morto. No, non era il caso. Se avessi preso il treno, mi sarei rilassato, goduto il viaggio e arrivato a casa contento della vacanza e del bellissimo giro in bicicletta. La prospettiva e la successiva decisione, migliorarono l’ umore e gli ultimi chilometri furono appaganti come quelli di un qualsiasi arrivo al traguardo. Alle 16 e 32 il treno partiva in orario, la bici era sistemata e tiravo le somme della mia tendaesperienza.
 

Viaggiare o non viaggiare con la tenda? Riflessioni.

 
In definitiva, per quello che mi riguarda, ho delineato quelle che sono le aspettative di viaggio che mi pongo. Per quanto sia economicamente più vantaggioso pernottare in tenda, pone in essere dei contro per me rilevanti. La mia aspirazione nei giri con la bicicletta è quella di godere del panorama, del territorio, visitare con curiosità e attenzione i dettagli da una terrazza, aggredire una salita o conquistare una spiaggia.Un centinaio di chilometri al giorno, per un paio di settimane, sono il mio target, ma dopo una giornata di fatica, mi piace coccolarmi con un letto morbido, fare una doccia calda e un pasto comodo. Ho bisogno di una base dove ricaricare le pile in tutti i sensi, che mi conceda di pianificare il giorno seguente con calma, consentendomi una passeggiata la sera per scaricare stanchezza e riassorbire energie.
Portare la tenda, limita il chilometraggio, affatica in modo esponenziale le mie gambe e frena le mie ambizioni limitando il raggio d’azione. Voglio una bici snella, secca e veloce, con un bagaglio ridotto al minimo e le comodità di un viaggiatore che si gode la vacanza.
Ammiro l’avventuroso che affronta viaggi in paesi privi di qualsiasi comodità, con la sola forza dei pedali verso mete altrimenti irraggiungibili. Ammiro anche i bike cruiser che partono in aereo, si trasferiscono in taxi e montano su biciclette a noleggio di viaggi programmati, controllati, collaudati con pernotti a quattro stelle. Ammiro me stesso , per la voglia di provare, per la caparbietà ostinata di alcuni momenti e per i momenti di debolezza che mi fanno propendere per soluzioni alternative senza drammatizzare. Testo il mio limite e oltre non vado, perché penso che questa sia la mia dimensione e posso fregiarmi del titolo di CICLOTURISTA! Ho fatto una bella esperienza che mi ha trasmesso serenità e tolto dubbi per i giri che metterò prossimamente in calendario portando la tenda e i suoi accessori solo quando sarà necessario e per viaggi brevi , mentre per quelli lunghi, tengo fede alle esperienze già fatte pernottando nelle pensioni.
Sono stato prolisso? o troppo conciso? Hihihihi!!! Alle prossime, ciao.
Alessandro è stato il protagonista di un altro bel viaggio in bici: da Trieste a Bologna in notturna in 23 ore... buona lettura!!!
 
 
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Alessandro67

Sono Alessandro Vitale e abito a Trieste . Coltivo la passione dei viaggi con la bicicletta perché mi hanno dato un serie di soddisfazioni sempre più complete, mi fanno vivere la natura poliedrica del pianeta a una velocità visivamente sostenibile.
Sono fidanzato da quasi cinque anni con una Cube Trekking e non abbiamo mai litigato, siamo in perfetta sintonia. Pensiamo di non mettere al modo figli, perché siamo profondamente egoisti e comunque lei non potrebbe averne.
Il viaggio più bello? Quello che devo ancora fare .
Il posto più lontano che ho raggiunto è stato il Marocco, toccata e fuga.
Il più bello, le gole di Vintgar in Slovenia.
Il più caro la Svizzera.
Il più economico la Sicilia.
Il prossimo? Forse il raduno Harley a Velden...vedremo.
Ho un' altra donna oltre la Cube e ogni tanto mi vorrebbe con se...non pedala...che dolore...