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Prospettiva.
Questa parola e il suo più esteso significato mi hanno da sempre affascinato, fin da quando me la insegnarono a scuola. O almeno, ci provarono. Sì, perché alcuni la possedevano come un sesto senso, un superpotere innato e, quando si dovevano disegnare quelle due strade parallele verso l’infinito, questi riuscivano a rendere l’illusione che le due rette si avvicinassero progressivamente, fin quasi a toccarsi laggiù, dove il foglio stava per finire. Altri, invece, avendola magari maturata grazie al consumo smodato di fumetti o illustrazioni, la vedevano nella vita reale, ma su carta proprio non riuscivano a renderla, producendo strambe riproduzioni moderne di iscrizioni egizie, un abbozzato 2D senz’arte né parte. Questa è la prospettiva del disegno, dell’arte, dell’architettura, del campo visivo insomma.
Poi c’è quella del suo senso figurato, quell’espressione, che – almeno nel mio caso – si è iniziata a comprendere e apprezzare solo col tempo: «Mettere le cose in prospettiva» o, come dicono oltre la Manica, put things into perspective.
Io ero uno di quelli che facevano il disegno delle due strade coi piedi (anzi, senza dubbio ancora lo farei) e forse anche “l’altra prospettiva”, quella della vita reale e della scelta delle effettive priorità, non l’ha ancora ca(r)pita come si dovrebbe.
Però, da quando ho messo il culo su una bici e ho iniziato a pedalare, qualcosa è cambiato, uno strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria si è percepito, le certezze fittizie su cui avevo costruito parte della mia vita quotidiana hanno iniziato a vacillare fino a farmi rimettere in discussione scopo e valori, nonché l’importanza del metro di misura dell’esistenza stessa, che sono sempre più convinto non sia corretto calcolare in giorni, mesi, anni, bensì in sorrisi sinceri, cieli azzurri, ma anche in temporali imminenti, in attimi di gioia, in fragole divorate, in fragranti movimenti di onde e brividi sul coppino.
Sono questi, un po’ sgarrupati, i pensieri che occupano la mia mente mentre con un rapido colpo di pollice mi accingo a passare al penultimo rapporto su una delle salite che, a posteriori, potrò ricordare come una delle peggiori – e al tempo stesso migliori – della mia “carriera” da cicloviaggiatore.
Mi trovo a Montalcino. Anzi, più precisamente mi trovo sotto Montalcino, sulla Strada Consortile detta Sferracavalli, una rampa ripida di 3 km scarsi che ci condurrà da quota 240 metri a quota 560. Le pendenze a doppia cifra durante la frullata ci sembreranno assurde.
Dopo, pazzesche.
Pedalo con Davide “il Bendo”, con cui sto condividendo questa fatica e questa gioia. Siamo in zona per qualche giorno, ovviamente assieme anche ai raggianti Leo, Vero e Nala, con cui trascorreremo una settimana all’insegna dei sorrisi, del freddo inatteso, del lavoro di tracciatura per i tour che lanceremo in estate e della primavera che non vede l’ora di esplodere in queste poetiche terre della val d’Orcia. Ne avevamo bisogno come l’ossigeno, dopo il tremendo anno 2020 che tanto ci piaceva nominare, prima, quando quel doppio ridondante binomio musicale suonava così bene, quando ancora non conoscevamo parole come lockdown, Covid, restrizioni o assembramento.
Ma torniamo a noi, alle spinte repentine sui pedali, al punto panoramico di Via Postierla, ora Piazza Camillo Benso Conte di Cavour, che da lassù sembra schernirci.
Pensieri sgarrupati, dicevamo.
È questo che succede quando si è di buonumore e si pedala – che poi è facile essere di buonumore quando si pedala e, anche quando si è di cattivo umore, basta continuare a pedalare.
Così come poco fa, quando stavamo passando la prima curva di livello dei 300 metri e ci arrestavamo davanti a un cartello riportante il numero 20 a indicare il livello di pendenza della salita, la mente ha continuato nel suo elaborare e svolazzare.
Mi ha riportato a quando tutto questo iniziava, quasi per scherzo, in una torrida estate del 2012. Si voleva scappare dalla solita equazione estate = fine degli esami = spaparanzarsi su una spiaggia per una settimana, sempre la stessa o sempre diversa poco cambiava.
Così il geniale Alessio, che non smetterò mai di ringraziare, se ne uscì con un: «Dai, quest’estate prendiamo la bici e andiamo a fare un viaggio. Non partiamo da casa in macchina, arriviamo sul posto, parcheggiamo i mezzi e ci spiaggiamo, usando la bici di tanto per andare a comprare il pane. Facciamo proprio il viaggio in bici: ogni giorno in un posto diverso, ci portiamo tutto l’occorrente, la bici come nostro unico mezzo di trasporto e nostra casa, il viaggio come viaggio».
Dopo qualche remora per una tale rivoluzione nella concezione di una vacanza, che all’epoca sembrava addirittura blasfema, insensata e per nulla rilassante, nonché dopo un impavido acquisto (per ben 70€) di un’improvvisata compagna d’acciaio firmata Gianni Bugno nei pressi del Ponte Coperto di Pavia che all’epoca ci ospitava quali studenti universitari, partimmo.
Zaino sulle spalle per il sottoscritto, ben più professionali panniers per Alessio e il terzo cicloslavista, Patrik. Uno delle tartarughe Ninja il primo, due crucchi i restanti, ispirati anche e soprattutto dalle proficue letture di Rumiz e Altan.
La destinazione? La regina delle ciclovie europee per chi voglia immergersi per la prima volta in questo turbinio di emozioni: la Ciclabile della Drava, da Dobbiaco, al confine italiano con l’Austria, fino a Maribor, in Slovenia. Poche centinaia di chilometri, livello di difficoltà praticamente inesistente, se non per le ultime tappe slovene, tante sane mangiate e una cornice che lascia lo stupore in faccia e il sorriso ebete anche per intere settimane a esperienza terminata.
Ricordo ancora ora, mentre fatico su questa Sferracavalli, le mulinate a vuoto per star dietro agli altri, le prime lacrime del viaggio, la scoperta delle radler, il profumo di resina dei boschi e l’umidità ammorbante della Drava nei pressi di Spittal, quel suo ingrandirsi e farsi più impetuosa, per poi quasi congelarsi bloccata crudelmente dalle numerose dighe, il puzzo degli abiti sudati, le difficoltà insormontabili che adesso mi fanno sorridere, i sacchi “del rudo” (per i non pavesi “della spazzatura”) usati per impermeabilizzare zaini o borse laterali, le gambe di marmo la sera e i risvegli lentissimi la mattina, con un’inspiegabile voglia di andare.
Si era ufficialmente mosso il convoglio del viaggio in bicicletta, stavamo assistendo alla germinazione di un gene che avrebbe influito su tutte le scelte di future vacanze. La risposta alla noia e alla monotonia sarebbe stato il cicloturismo, il viaggio nella sua più travolgente accezione, quello che amplifica i sensi e immerge a forza nella cultura del luogo in cui pedali.
Al primo (e unico) tornante di questa mega rampa ci fermiamo. La ghiaia, su cui abbiamo abilmente navigato fino ad ora, si trasforma in asfalto, quello bello grezzo e tagliato in diagonale come nelle strade per i rifugi di montagna: brutto segno. L’arresto mi ridesta. Alzo lo sguardo, ma Montalcino è ancora lassù, troppo lontano. Respiro, cerco di riprendere fiato, do una sorsata alla borraccia e guardo lo stambecco orobico che – fresco come una rosa – mi restituisce un’occhiata iconica, parlante. Questa sembra invitarmi a riprendere la salita, sembra gridarmi che chi si ferma è perduto. Ma se perdersi significa anche un po’ ritrovarsi, allora aspetto ancora qualche secondo, fingendo di trafficare nelle borse da bikepacking prima di riprendere l’ardua salita.
Salita che, mentre un clic mi avverte di aver terminato i rapporti a disposizione, mi fa subito venire alla mente la mia terza avventura in bicicletta, dopo una seconda estate su un’altra famosa ciclabile piuttosto pianeggiante, quella del Danubio, da Passau a Bratislava. Questa pedalata è stata meno segnante della precedente, forse perché molto simile e a tratti anche noiosa per i drittoni infiniti e i cambi di sponda ripetitivi.
Poi venne il 2014, quello delle salite toste, quando con un’improbabile compagnia cicloturistica, insieme agli inseparabili Alessio e Matteo, affrontammo gioie e dolori della Via Francigena in bicicletta. Partimmo da Pavia, ancora immersi nella sua atmosfera del quinquennio universitario, verso Roma sull’antica via di Sigerico. Le due scalate che ricordo con timore reverenziale sono il Passo della Cisa, caposaldo di ogni pellegrino (a piedi o in bici poco importa) che si ritrovi a percorrere questo dedalo di vie verso la capitale eterna, e la meno impegnativa – ma all’epoca più sconvolgente – scalata a Radicofani, molto vicina a dove ora ci troviamo io e Davide, così vicina che saremo in grado di intravederla, all’orizzonte, oltre quelle colline e i gruppi di cipressi, in cima.
La fatica, ma anche la varietà di paesaggi, il sudore grondante a gocce che si tuffava a terra dalla punta del naso, i sapori inconfondibili del centro Italia, così diversi da un borgo all’altro e le amicizie strette in viaggio sono solo alcuni dei forti ricordi che porto con me di quell’estate. Ritornano prepotentemente alla mente quando passiamo ansimando la curva di livello dei 400 metri e per la prima volta questo pomeriggio vedo Davide affaticato. Per fortuna è umano.
Si prosegue, pedalando freneticamente, sia sui pedali che nel vortice della memoria. Il meccanismo era dunque oliato, gli ingranaggi si muovevano in concerto, all’unisono, senza cigolii. Cioè, i cigolii li faceva la Bugno, che cambiai abbastanza in fretta. Feci dunque un upgrade acquistando il vecchio mezzo di Alessio che aveva sostituito con una strana bicicletta americana che, molto costosa ma a detta sua comodissima, l’avrebbe portato lontano – affermava. Intanto la consolidata routine delle due settimane di viaggio non smetteva di scaldarci il cuore e impegnarci l’estate, tra programmazione e svolgimento.
Dopo l’esperienza sulla Via Francigena per ben due anni di fila traversammo l’Italia: una prima volta da Firenze a Salerno con una compagnia di folli (Davide, Emanuele e Matteo), una seconda in coppia con l’intramontabile Alessio, passando per i luoghi distrutti dal tremendo e devastante terremoto del 2016, sempre partendo da Firenze ma giungendo a Matera, una vera perla di città.
Giungiamo a una svolta. Sì, la Sferracavalli ci permette di riprendere fiato grazie al suo secondo mini tornante. Ci arrestiamo di fianco a un secondo cartello, che paradossalmente abbassa la stima del gradiente di salita a un “misero” 15%. Mentre mi rimetto sui pedali e impennando di continuo spingo a più non posso sull’ultima rampa che taglia le curve di livello finali (ormai l’irraggiungibile 500 è stato sfiorato), in questo caleidoscopio di pensieri visualizzo chiaramente la svolta, quella in ambito cicloturistico, giunta appena due anni fa.
Dopo l’incontro con i miei simili, i cicloviaggiatori, al BAM di Mantova, e così aver compreso che siamo veramente in tanti matti a godere del “viaggio come viaggio”, è giunta una catarsi chiamata Salsa Fargo, un acquisto rivoluzionario, una dichiarazione d’amore al voler seguire questa cosa magica che è il vagabondare in bici. Quasi per caso, a una serata in cui ho sognato ascoltando e conoscendo un guru dei viaggi come Stefano Scapitta, mi sono innamorato di quella che poi sarebbe diventata la mia Purple Panther, tempio di comfort e velocità, di rapporti agili e manovrabilità, che ormai mi accompagna in uscite brevi, piccoli viaggi e – si spera in futuro – grandi traversate senza meta.
Con lei, a cui sto chiedendo uno sforzo estenuante per portarmi oltre quella porta di ingresso a Montalcino, ho affrontato i primi trail, l’ho smontata e inscatolata per volare in Lettonia a sgranocchiare del selvaggio gravel, l’ho cosparsa di salsedine per condurla a solcare le strade degli Dei nel Peloponneso e tra i ricordi d’asfalto della Sicilia.
Ora siamo qua, legati oltre che da un sentimento reciproco anche da due saldi agganci SPD, a muoverci lentamente come solo noi sappiamo fare, forse con poca grazia, ma certamente con tanta sete di toccare il culmine di questa interminabile scalata sulla strada dei ricordi.
In cima.
Ciò che poco fa era un piccolo irraggiungibile sogno lontano e alto, uno sparuto gruppo di case che pareva una presa in giro dover raggiungere, ora è nostro. Fiatone nei timpani, sguardi di soddisfazione, cerchiamo un punto panoramico e lo raggiungiamo nel miglior momento possibile: siamo arrivati in cima durante la golden hour, un regalo duro da buttare giù in scioltezza.
Un attimo, quasi impercettibile. Sale un motivato ma inatteso calore al volto, poi giunge un brivido, gli occhi si riempiono di bellezza, umettati da una tiepida lacrima: in un momento realizzo di aver conquistato qualcosa che non mi appartiene – o, per meglio dire, capisco che qualcosa che non mi appartiene mi ha conquistato – eccola, la prospettiva, la percezione di essere piccolo, ma di poter sentire grandi cose.
Proprio come quella prospettiva che ci insegnavano a scuola e che alcuni avevano innata e altri no.
Prima laggiù, ora in cima a Montalcino.
Prima uno scherzo estivo, ora una scelta di vita.
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