Il Laos più profondo, quello che da Savannakhet raggiunge il distretto di Champone dei villaggi di campagna, delle mondine che lavorano sotto il sole cocente nelle risaie allagate, delle strade polverose e piene di buche che possono inghiottire un ciclista e la sua bici senza lasciarne traccia; il Laos degli uccelli colorati, delle scimmie intraprendenti e delle tartarughe sacre; il Laos dei monaci bambini, degli allevatori di bestiame, delle venditrici di frutta tropicale e dei bufali d'acqua: questo Laos è ciò che abbiamo scoperto inoltrandoci per qualche giorno nell'entroterra.
La strada scorre dritta verso est. Il vento in faccia rallenta solo di poco la nostra avanzata ed il sole non ancora alto all'orizzonte ci indica la via. I primi chilometri sono solo noia, interrotta sporadicamente da un duello ingaggiato con i numerosi bambini che a quest'ora vanno a scuola, la maggior parte in bicicletta.
Di lì a poco il disastro sopraggiungerà, improvviso ed inatteso. Abbiamo già imboccato la strada secondaria che conduce nell'entroterra del
distretto di Champone, verso
Kengkok. Un piatto di
khao pad ed una
birra fresca non possono consolarmi di quanto successo pochi minuti prima: un suono forte ed acuto è arrivato alle mie orecchie dalla ruota posteriore e poi il classico tintinnio di un raggio spezzato che sbatte sugli altri, nel mezzo del nulla e senza ricambi.
Fortunatamente l'assetto della bici non sembra essere compromesso e riuscirò ad arrivare perlomeno fino alla prossima cittadina: buche che sembrano trafori ci fanno sperare che l'asfalto finisca in fretta e lasci spazio alla nuda terra, più regolare nella sua irregolarità! Siamo subito accontentati quando ci dirigiamo verso
Ban Nonkhou-noua, sperduto ed identico ad altre centinaia di villaggi se non per la presenza di un piccolo bacino naturale pieno di
tartarughe ritenute sacre dagli abitanti e per questo protette. Il tramonto scende sulle campagne circostanti dove centinaia di
bufali d'acqua pascolano tra le risaie secche ed aride. Il sole svanisce dietro le
alte palme che punteggiano la pianura e noi rientriamo in città pronti a risalire in sella quando la stella sarà nuovamente sorta.
La prossima destinazione del nostro girovagare è una foresta non molto distante in cui si sono stabiliti tre gruppi di
scimmie, anch'esse venerate come sacre e nutrite dai vicini cugini umani. Il percorso che ci attende è di quelli da
veri amanti del mountain biking nonostante sia praticamente privo di dislivello. Solo un paio di chilometri e si deve già affrontare la prima difficoltà attraversando una striscia di cemento che blocca le acque di un lago irriguo.
Una volta giunti sulla sponda opposta, una traccia poco più larga di due metri viene utilizzata come strada da motorini, pedoni, carretti, trattori e persino piccoli furgoncini guidati da intrepidi piloti. Non facciamo in tempo a scaldare la gamba che un gruppo di colorate
mondine al lavoro con il fango fino alle caviglie attira la nostra attenzione e ci blocca per qualche scatto. Giriamo lo sguardo su un ramo secco che si protende dalla terra allagata di un appezzamento non ancora coltivato ed avvistiamo un
martin pescatore. Preda troppo lontana per i nostri miseri teleobiettivi, lo lasciamo alla sua battuta di pesca e ricominciamo a pedalare.
Il verde intenso del riso appena cresciuto contrasta con il giallo pallido di quello già raccolto così come i tetti di lamiera delle case del villaggio si contrappongono a quelli più modesti di foglie di palma. Il
sentiero scorre rialzato tra le sterminate risaie, ma dinanzi a noi si tuffa nell'acqua dove la pressione ha portato via l'argine su cui ci troviamo: leviamo scarpe e calze e con l'acqua fin quasi alle ginocchia
spingiamo le bici oltre il guado. All'orizzonte un enorme
lago artificiale usato per le campagne dell'area di Champone ci obbliga ad una deviazione ed il forte vento laterale non ci aiuta nell'avanzata. Il paesaggio rurale è suggestivo, immoto ed immutato da decenni; i suoi ritmi lenti e languidi come possono esserlo solo ai tropici, ci conquistano e pervadono il nostro spirito facendoci fermare all'ombra di una palma per mangiare
frutta fresca e bere latte di cocco direttamente dalla noce.
Pochi chilometri e siamo nella
foresta delle scimmie: tre gruppi numerosi prosperano indisturbati tra il vicino tempio, le case degli spiriti lungo il fiume e la fitta boscaglia che li unisce. Si concedono ai nostri scatti con portamento da modelle navigate ed anche i
novizi dal sarong arancione si affacciano per curiosare, svelando la loro natura infantile celata dietro l'abito monastico. Il fiume è lì, basso e modesto sul fondo del suo letto che tradisce l'imponenza del corso nei mesi monsonici.
I mezzi di trasporto - motorini, fuoristrada, trattori e qualche camion degli anni '60 - scendono le sponde sabbiose, si tuffano dove sembra più conveniente e riemergono dall'altra parte; facciamo così anche noi, togliendoci le scarpe per la seconda volta. Una scheggia o un pezzo di conchiglia sotto la ruota posteriore ci costringe a sostituire la
camera d'aria forata e subito una manciata di giovani si accalca per assistere allo spettacolo. Il resto del percorso è dolcemente semplice e regolare cosicchè il ritorno sull'
asfalto di Kengkok ci procura un trauma emotivo non acora superato. Ancora tra campi riarsi e strade sterrate giriamo la prua verso sud, lasciandoci sospingere da una leggera brezza che ci accompagna per l'intera giornata.
Una targa genovese nel nulla laotiano colpisce la nostra attenzione ed incuriositi ci fermiamo: cinque centauri da svariate città d'Italia si godono una pausa per sfuggire al caldo sole di mezzogiorno. Quattro chiacchiere, un paio di foto e salutiamo togliendo il disturbo: l'
altopiano del caffè ci attende...
Questo articolo fa parte del diario di viaggio tenuto in diretta del progetto Downwind. Se volete leggere le altre puntate, ecco qui tutti gli articoli dei nostri dieci mesi in bicicletta nel sud est asiatico
Ultimi commenti
Oggi con una ebike si possono fare dei percorsi impegnativi fisicamente (per una bici senza motore) ma per quanto riguarda la tecnica non tutti possono fare dei giri tecnicamente difficili.
Io, con i miei 67 anni, cerco giri fino a 1500 m di dislivello, ma non troppo difficili tecnicamente per potermi gustare pienamente i paesaggi e i posti, senza dover rischiare su single trail esposti.
Grazie Enrico