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Vento di Tunisia | Viaggio in bici nel Nord Africa
Scritto da Mario
Sono steso su un letto in una cabina del traghetto, un cubicolo claustrofobico di pochi metri quadrati, uno striminzito corridoio centrale tra due ordini di letti a castello. Stiamo ritornando dalla Tunisia, è notte fonda e i miei amici dormono. Mi ha svegliato il brontolio lontano dei motori e la costante vibrazione che trasmettono a tutta la nave. Cerco di riaddormentarmi ma il pensiero corre a quello che ho vissuto nei giorni precedenti, alle fatiche affrontate, alle emozioni vissute, alle soddisfazioni godute, a quelle due notti trascorse in tenda nel deserto, quando solo un sottile telo mi separava dalla brezza notturna che accarezzava le dune e dalla luna piena che le satinava di luce, e a quando non avvertivo alcun rumore se non il soffio ritmico del respirare nelle tende accanto e il fruscio del vento tra la sabbia. Era una sensazione di benessere e libertà.
Tutto era cominciato qualche settimana addietro con una semplice e-mail, un invito a festeggiare il capodanno in modo sicuramente poco convenzionale, pedalando sulle strade della Tunisia verso l’oasi di Ksar Ghilane e poi ancora, attraverso il Chott el Jerid, e Tozeur, Chebicka, Tamerza, Mides… La decisione era stata pressoché immediata, istintiva; una di quelle scelte improvvise delle quali mi sono sempre stupito e mai pentito.
Come me altre 18 persone che mi erano sconosciute fino a qualche giorno prima ma che in breve erano diventate amici. Ci univano la passione per i viaggi lenti, per la natura, per le emozioni guadagnate con fatica, per il confronto con noi stessi e con gli altri. Quello che andavo ad affrontare non era un viaggio semplicissimo, lo sapevo, ma neppure duro, pensavo.
Pedalando nel vento
A renderlo duro ci ha pensato il vento, inatteso o quanto meno imprevisto, uno di quegli imprevisti che a volte possono rovinare una vacanza e a volte la caratterizzano facendola diventare un vero viaggio. E questo viaggio era cominciato così all’insegna del vento.
Fin dal nostro arrivo avevamo avuto modo di assaggiare il vento di Tunisia ma Gabes, da dove avremmo cominciato il nostro viaggio in bici, era 500 km a sud e pensavamo che sicuramente qualcosa sarebbe cambiato; invece già dal secondo giorno era chiaro che il vento sarebbe stato un compagno dispettoso, quella era la sua terra e sembrava volerla difendere, era come se ce l’avesse con noi.
Ad ogni pedalata corrispondeva una raffica e la strada continuava a salire, in modo accettabile in condizioni normali, ma… sembrava una maledizione, quando si impennava quel ventaccio ne approfittava per rinforzare, quasi a respingerci.
Come ogni strada che sale, anche quella ogni tanto scendeva ma il momento di riposo era solo illusorio perché anche la discesa costava fatica, quando non bisognava pedalare era necessaria la massima concentrazione per reggere la bici contro le raffiche laterali e, i bagagli certo non aiutavano, amplificavano l’effetto vela ed allora eravamo costretti a correre di sbieco, con le bici coricate come in una perenne curva destrorsa, come una barca che vada di bolina.
Il vento puliva l’aria e il paesaggio intorno a noi era limpido come un cristallo, la cresta che la strada percorreva cadeva su una piana costellata di dossi sassosi che via via si appiattivano in piccole dune color terracotta e rosa, punteggiate di macchie di verde scuro, e tra quelle spiccavano le case isolate, cubi bianchi nella pianura nocciola. Dall’altro lato si apriva un paesaggio alieno di colline rugginose, gole riarse e profonde, scavate nei millenni da chissà quali antichi torrenti che ne avevano scoperto lo scheletro di rocce biancastre.
Ogni tanto nelle gole più strette e riparate, un piccolo orto, un giardino nascosto e verde di olivi e palme, di erba medica tenera e rada, ristretto tra muri a secco e rocce, appariva improvviso e dopo pochi metri scompariva, come un miraggio, come inghiottito dalla gola che lo proteggeva.
E il vento soffiava, ma poco alla volta la sua forza, che pur non diminuiva, perdeva importanza, la fatica era sempre meno avvertita, la bici che ci permetteva di attraversare quel paesaggio sembrava diventare più leggera, sembrava andare da sola e la mente, gli occhi si perdevano nel paesaggio, nel cielo azzurro e limpido, nel vento implacabile ma allegro, vivo, sonoro compagno di giochi , al quale abbandonarsi accettandone i capricci e gli scherzi, gli sberleffi e le improvvise momentanee fughe. Era un gioco a rimpiattino lungo le scarpate, era gettarsi al momento giusto nella discesa per sfruttare l’abbrivio per l’immediata successiva salita, era cogliere ogni sua piccola disattenzione per beffarlo e farci sospingere per qualche metro ancora... fino a quell’ultima salita, a quella curva ed alla discesa verso sud-est, da dove, pago di giochi ci ha lasciato scivolare leggeri e veloci, accompagnandoci nella stessa direzione, come un amico che con una mano sulla spalla, soddisfatto del gioco ci accompagni la sera, verso casa.
Nella sabbia e nella notte
Non sempre un bel gioco si può ripetere, quello che invece si ripresentava puntualmente alla stessa ora era lui, il nostro amico, il vento da nord-ovest, che beffardo e dispettoso, ci sorprendeva a metà mattinata e ci accompagnava fino al tramonto. Quella sera aveva smesso da poco di incipriarci di sabbia sulla pista per Bir Soltane, dopo una sosta, pedalavo lungo una traccia che ormai distinguevo a fatica, pigiavo sui pedali con tutte le forze ma era come se le ruote fossero risucchiate da una forza misteriosa e inghiottite in pozze di sabbia che sembrava liquida. Ero stanco e assetato, sapevo che ormai mancava pochissimo al campo, quando improvvisamente, in un avvallamento un fuoco ha svelato la sagoma di una tenda che si confondeva, nera, nel nero della notte che ormai era calata. Attorno al fuoco si muovevano le ombre di chi era arrivato qualche minuto prima, nella tenda le luci di alcune candele illuminavano una tavola pronta per la cena. Attraverso gli indumenti sudati ho avvertito un brivido che mi è arrivato alle ossa.
Il freddo era calato come un coltello assieme alla notte, ho afferrato con avidità una tazza bollente di the alla menta, che qualcuno mi porgeva.
Il sapore dolce della bevanda e il suo calore mi sono scesi nello stomaco facendomi dimenticare il freddo e la fatica della giornata. In quel momento quel che contava era essere là a sorseggiare quel the, guardando la luna piena che rischiarava la notte, lontani da ogni traffico, in mezzo al silenzio, nella tenda beduina che Mohammed, il cuoco, aveva montato per la cena che stava preparando. Valeva più di qualsiasi hotel, e lo stufato che stava sobbollendo, era sicuramente migliore di molti buffet. Abbiamo mangiato seduti attorno al basso tavolo.
Il sapore piccante dell’Harissa ci infiammava la lingua, la chorba calda ci saziava. Le fiamme delle candele danzavano nel buio sotto la tenda illuminando i nostri volti sorridenti, eravamo tutti allegri, ogni fatica era già dimenticata.
Ksar Ghilane... come un miraggio?
Ksar Ghilane è apparsa da lontano, una striscia nerastra all’orizzonte, confusa dapprima, poi via via più nitida. Il nero scolorava un po’ alla volta verso il verde e diventava palmeto, che, appariva irreale, sospeso tra le onde gialle di quel mare solido. Nello stereotipo del viaggiatore, l’oasi appare sempre come un miraggio, sotto la vampa del sole che ne riverbera il profilo tremolante tra le dune, una immagine molto romantica. Non Ksar Ghilane. La porta del deserto, è stata trasformata in un parco giochi per turisti motorizzati. Lungo la strada siamo stati superati da decine di SUV, da moto che sembravano astronavi, da camion pronti per traversate del Sahara che forse non hanno mai avuto luogo. La maggior parte di loro è arrivata esattamente là dove noi siamo arrivati dopo mezz’ora, con la sola forza delle nostre gambe, sulle nostre bici cariche di tutto il poco necessario e con l’unica concessione ai motori di un pic-up in appoggio.
Il tuffo nella pozza di acqua sorgiva è un rito al quale non potevamo negarci, ma il mito dell’oasi lontana nel deserto silenzioso è crollato fragorosamente seppellito dal meccanico muggito di decine di diesel. Sembrava di essere in mezzo ad un incrocio all’ora di punta.
Per fortuna Mohammed aveva pensato bene di montare il campo lontano da quella confusione e arrivare alla tenda nera, tesa tra le dune è stato riconciliarsi con il deserto sovraffollato dall’occasione. Capodanno tra le dune, diceva il nostro programma è così è stato. Capodanno sotto le stelle tra le dune del deserto che là cominciava, guardando la luna piena che stava spuntando, capodanno in compagnia di nuovi amici, concludendo un anno ed iniziandone un altro in un nuovo luogo, in un nuovo modo. Lontani continuavano ad avvertirsi gli schiamazzi, i rumori dei motori imballati, la musica demenziale di chi non sapeva volere un inizio diverso. Mi è mancato il silenzio!
Tamerza all'orizzonte
Pedalando con tutta la mia forza il contachilometri non si schiodava dagli 9/10 kmh, mi sembrava di essere sullo Zoncolan ed invece ero sulla più piatta delle strade; a contrastarci il solito ventaccio malefico che soffiava contrario e teso. Ogni tanto una raffica ancora più forte ci sbatacchiava e scomponeva, non ci dava modo di godere di quel paesaggio vuoto e dei riflessi cangianti che riverberavano dalla superficie cristallina del Chott, lampi luminosi bianchi, bluastri, rosa, verdi, arrivavano agli occhi come lame di luce che il vento spezzava, satinati dal sale e dalla sabbia che pungevano il volto, e impastavano bocca.
Il sole era una palla di cotone in un cielo di latte, l’orizzonte una riga, un tratto di pennarello su una carta crespata, piatto, inavvicinabile.
Una baracca a lato della strada ci è sembrata migliore di un Autogrill; il pavimento era in terra battuta, non aveva porta e per fortuna una sola piccola finestra, dalla quale comunque il vento entrava sonoramente fischiando. Abbiamo atteso che l’acqua bollisse ed alla fine ingollato il the, mangiato qualche biscotto, una scatoletta di tonno piccate, un pezzo di pane. Ora potevamo ripartire verso l’orizzonte, il sole stava calando e poco dopo anche il vento lo avrebbe seguito. Che doccia quella sera!
Tamerza è un miraggio, ci siamo arrivati con una brusca salita. 3 o 4 km di strada che improvvisamente si impenna e ti strappa dalla arida distesa ai piedi dei monti. Il palmeto lussureggiante occupa tutta la valle adagiandosi come un morbido tappeto fin sui salienti rossi, graffiati da strisce di rocce traslucide e biancastre. Il nostro albergo era bellissimo, quasi nascosto dopo il paese, non lo si è visto fino all’ingresso, armonizzato com’era nel paesaggio ruvido di questi monti. La mia finestra dava sul villaggio morto, quello abbandonato 40 anni or sono dopo 22 giorni di piogge ininterrotte che lo hanno letteralmente sciolto.
Quel torrentello che prima avevo attraversato sull’unico ponte di tutto il viaggio, ha trascinato con se la vita, la casa, il lavoro, la memoria di secoli. Di fronte a me rimaneva solo lo scheletro di quella società, muri di pietra che si ostinano a rimanere ancorati al fango secolare e un unico edificio intatto e intonacato, la moschea,forse. Lungo l’oued che scorre accanto al villaggio passava un uomo con il suo asino. Forse viveva in quel villaggio prima del diluvio, forse tornava come ora a casa camminando in quei vicoli dove bambini scalzi e chiassosi si rincorrevano e donne nascoste guardavano con occhi curiosi e neri di kajal, dove sui telai, abili mani dalle lunghe dita danzavano tra trama, ordito e fusi multicolori pendenti dal tappeto che nasceva, allacciandone i nodi che diventano poesia di colori e disegno, dove i vecchi, ricchi di vecchiezza e nipoti, sedevano sulla soglia di casa con un bicchiere di the nella mano e meraviglie antiche, favole vere, serena saggezza negli occhi.
Sul traghetto la vibrazione dei motori e il loro sommesso brontolio diventano sempre più indistinti e i ricordi si confondono e si fondono. Nel sonno che ritorna le immagini lampeggiano come flash… la faccia del contadino che ci regala le arance, le mani dei bambini che, in corsa ci danno il cinque, le facce allegre di chi superandoci in auto ci incita nelle salite, l’espressione stupita del motociclista-astronauta e il suo saluto… “grandiosi”.
Si… grandioso questo viaggio a pedali.
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Ultimi commenti
Oggi con una ebike si possono fare dei percorsi impegnativi fisicamente (per una bici senza motore) ma per quanto riguarda la tecnica non tutti possono fare dei giri tecnicamente difficili.
Io, con i miei 67 anni, cerco giri fino a 1500 m di dislivello, ma non troppo difficili tecnicamente per potermi gustare pienamente i paesaggi e i posti, senza dover rischiare su single trail esposti.
Grazie Enrico