Il concetto di frontiera è un’idea superata per il viaggiatore postmoderno preso tra check-in e duty-free, che lo considera al di più una linea immaginaria e arbitraria dove si coagulano problemi legati a equilibri politici e identità nazionali. Viaggiando via terra, invece, soprattutto con un mezzo lento e penetrante come la bicicletta, la frontiera riacquista spessore e concretezza, diventa di nuovo un luogo vero e proprio, prima ancora che un’idea.
Attraversare un confine in bici non è affatto un atto immaginario, comporta sempre un’emozione, rinnova ogni volta il piacere della scoperta, schiude un senso di briosa aspettativa. Non solo perché impone l’attesa del disbrigo delle formalità burocratiche e realizza l’impatto con un’altra umanità nella forma del doganiere o del pendolare di frontiera, in cui già si intravede il nuovo tipo umano che ci aspetta aldilà della sbarra. Il confine è reale anche perché spesso segnato da una barriera geografica che bisogna attraversare a colpi di pedale, che sia un passo di montagna o un fiume.
Catapultati in un altro universo
Alcune frontiere, è vero, non separano mondi distinti, ma spazi diluiti che presentano più o meno lo stesso carattere, differenziati solo da una bandiera di colori diversi e messaggi di benvenuto in una lingua appena cambiata. Ma altre frontiere dividono – anzi, mettono in comunicazione – universi distanti e inconciliabili, e attraversarle vuol dire essere catapultati in un’inedita realtà spaziotemporale, che pure esiste appena là fuori dal mondo conosciuto.
Quella tra Iran e Turkmenistan è una di queste frontiere. Passato l’impetuoso corso d’acqua torbida che disgiunge lo stesso deserto condiviso tra i due stati, la strada asfaltata s’interrompe bruscamente subito dopo il ponte, sostituita da una pista dissestata e polverosa. I doganieri parlano di nuovo un linguaggio turcofono che riusciamo a capire; donne in divisa dai capelli scoperti e inconfondibili tratti orientali ci sorridono sicure e cordiali in una bizzarra uniforme da ranger. Gli uomini mi rivolgono finalmente la parola – e sguardi sornioni e disinibiti; gitane dalle lunghe trecce nere che cadono sugli scialli variopinti mi fissano spavalde, e le loro chiacchere garrule riempiono la frontiera di abbaglianti denti d’oro.
Nel giro di pochi metri, niente è più come prima: gli chador che non sorridono mai sono spazzati via dalle argentine risate d’oro delle nomadi turcomanne; alle mille cerimonie suadenti dei timidi approcci iraniani, che non azzarderebbero in nessun caso un complimento diretto, subentrano sagaci battute sussurrate che dopo tre mesi di Iran mi sembrano addirittura sconce; i grandi occhi persiani in cui perdersi come in laghi di pece cedono il passo al taglio mandorlato e gli zigomi schiacciati dell’oriente. Così scompaiono gli svolazzi della scrittura araba per far posto al familiare alfabeto turco; le trafficate arterie dall’asfalto perfetto si trasformano in desolati tracciati scavati tra sabbia e fossi; i brulli altipiani a 1000 metri dominati da centri storici congestionati e inquinatissimi collassano drammaticamente nell’enorme deserto turkmeno del Karakum, dove sorgono anomale città dai modernissimi centri tirati a lustro e dalle scompaginate periferie di fango e lamiera.
Il mistero del Turkmenistan
L’Iran è alle spalle. Davanti, il mistero del Turkmenistan. Abbiamo letto miriadi di blog di ciclo-viaggiatori, spaventati dall’idea di dover attraversare il gran deserto turkmeno con il visto di transito di 5 giorni, e tutti invariabilmente avvertono del caldo soffocante e delle lunghe distanze senz’acqua potabile, e descrivono le statue d’oro dell’eccentrico dittatore che adornano le piazze e la condizione delle strade, le peggiori di tutta la via della seta.
Nessuno però scrive che a maggio il deserto è traversato da una brezza tiepida che profuma di miele e che le turcomanne sono le più belle donne dell’Asia centrale. Non ci aspettavamo perciò l’intenso tripudio di colori che ci ha investito appena giunti in Turkmenistan: le sfavillanti macchie di luce di slanciate figure femminili dal portamento elegante che sfoggiano lunghe vesti dai toni accesi; le raffinate uniformi smeraldo di studentesse longilinee dai capi alteri adorni di spesse trecce e papaline purpuree decorate di fili dorati; le sottane imperlinate, impreziosite da fastosi pendenti d’argento delle nomadi tatuate che vendono latte di cammello in sperduti avamposti nel deserto.
Anche il deserto turkmeno emette un respiro sorprendentemente vivo e vibrante, infiorato di cespugli tondeggianti di petali dalle tinte tenui, ricamato da geometriche palizzate di canniccio che tengono le dune, animato dall’incedere maestoso di dromedari semi-selvatici che pascolano indisturbati e dai guizzi fulminei di varani color rosa cenere. Così non ci immaginavamo che attorno ai canali d’irrigazione che attraversano il deserto (i più lunghi del mondo) la terra rigurgitasse villaggi d’ocra rossa, corpi finalmente svestiti che escono gocciolanti dall’acqua, e una rigogliosa vegetazione verde brillante vivificata dai frulli di uccellini incredibilmente variopinti che svolazzano a mezz’aria e non hanno – chissà poi perché – alcuna voglia di attraversare il confine iraniano.
Una trappola per cicloviaggiatori
Purtroppo per i ciclisti, la strada è, in effetti, un vero incubo, una trappola ininterrotta di affossamenti di sabbia e voragini profonde quasi un metro. Ad appena un chilometro oltre la frontiera, ci sentiamo già stremati. Non si vede anima viva, e i mezzi pesanti sono tutti bloccati e sigillati alla dogana, ma mentre ci guardiamo intorno perplessi, un grosso camion stracarico si ferma a offrirci aiuto.
Giriamo gli occhi sul suo cassone straripante: cosa volete che porti un camion da una parte all’altra del deserto? Ovviamente, sabbia.
Il camionista scende; non parla, non fa nessun cenno, aspetta soltanto, paziente come una roccia; sembra non gli importi di niente al mondo. Con la sigaretta perennemente in bocca, guarda di sottecchi il tandem carico, e si stringe appena nelle spalle. Quando Alessandro si decide, con imperturbabile flemma lo aiuta con una sola mano a issare il tandem sopra il cumulo ondeggiante di granelli di sabbia. Uno, due, issa, ecco fatto, si parte. Guida e fuma senza spiccicare parola, agli innumerevoli posti di blocco scende con il solito sguardo immoto e una banconota accartocciata in mano per il poliziotto di turno.
Nessuno fa caso ai due stranieri che si squagliano nella cabina. Per noi il viaggio è un inferno: percorriamo 150 km in 7 ore; il mezzo arranca in un delirio di buche, fossi e polvere; cerchiamo inutilmente di distrarci dal caldo e dalla sete concentrandoci sugli scorci di case di fango e paglia, gorgoglianti fiumane verdastre e trilli di volatili da fiaba dalle piume rosse, gialle e verdazzurre che incrociamo lungo la scorciatoia imboccata dal nostro silenzioso anfitrione. È tarda sera quando arriviamo nella polverosa città di Mary; ci apprestiamo a campeggiare in quello che sembra un parco pubblico, ma è in realtà l’ampio cortile di un complesso scolastico. In men che non si dica, le donne che abitano nei dintorni ci portano acqua fresca e pane appena sfornato, e il guardiano della scuola ci scorta fino a casa sua per offrirci la cena e una stanza per la notte.
Paese che vai, ospitalità che trovi
Non possiamo fare a meno di paragonare il nuovo paese con l’Iran. Anche i turkmeni sono estremamente ospitali, ma riservati e mai invadenti. Servono tè verde in piccole scodelle sbeccate, e anche il cibo è più povero, tutto a base di grasso di pecora: durante la nostra breve traversata non troviamo altro che manti (ravioli bolliti ripieni di un trito di grasso, carne e cipolla e conditi con yogurt acidulo), somsa (calzoni al forno ripieni di fette di grasso, pezzetti di carne e fette di cipolla) e çorba (brodo dove galleggiano – indovinate un po’ – i soliti pezzi di grasso, carne, cipolle e patate).
La concezione della casa è totalmente diversa; le abitazioni si sviluppano intorno a un cortile interno coltivato, attorno al quale sono schierate le stanze, senza porte di comunicazione tra l’una e l’altra: tra la latrina e la doccia c’è solitamente tutto l’orto da attraversare. Il bagno è uno shock, dopo l’ossessione islamica dei servizi pubblici con acqua corrente che è una vera manna in Iran. Qui si tratta invece di un bugigattolo senz’acqua e soltanto piccoli pezzi di carta e cartone raccattati qua e là per pulirsi, dove si sta in equilibrio su poche assi sospese sul letamaio sottostante che va direttamente a concimare l’orto.
La religione torna a essere invisibile e discreta e Allah scompare dal vocabolario, anche se ci accorgiamo di un segno nuovo: la gente si passa le mani sul viso dopo aver mangiato, per ringraziare del cibo. Ce lo insegna Murat, un contadino che ci invita a campeggiare nella sua tenuta ai margini del deserto, una sessantina di chilometri dopo Mary. Coltiva da solo parecchi ettari a patate e aglio strappati alle sabbie. Sembra in pace con il mondo intero; un vecchio cane e un cucciolo appena nato gli fanno compagnia, insieme a un via vai infinito di rondini che hanno nidiato in casa; la porta dell’unica stanza è aperta giorno e notte, e Murat osserva i voli gioiosi dei suoi amici uccelli entrare e uscire con mille strepiti, la fronte liscia e soddisfatta. Ci offre una colazione frugale e saporita di pane duro, burro e tè, e alla fine aspetta che cominciamo noi il ringraziamento di rito, invitandoci impaziente con le mani giunte a scodella.
È interdetto e sbalordito: non riesce a capacitarsi che in un’altra parte del mondo non si usi mormorare la bismillah passandosi le mani sul volto alla fine di ogni pasto.
Il deserto e la "riserva naturale" di Repetek
Ripartiti dal campo di Murat, comincia la traversata del deserto. Il Karakum è arido e immenso, ma la strada, seppure sconnessa, è un po’ più percorribile, si trova acqua da bere ogni 50 km, e l’aria è mobile e tersa. La terza sera decidiamo di sostare a Repetek, una località denominata su Google Map come una riserva naturale e segnata sulla cartina con una macchia verde nel deserto. Mentre ci sgranchiamo e consultiamo la mappa una decina di chilometri prima di giungere a destinazione, un pullman completamente vuoto inchioda proprio davanti a noi. Ne scende un autista armeno che vuole a tutti i costi caricarci, perché, dice, siamo cristiani come lui. A sentire la nostra meta, scoppia a ridere di gusto: «Rrre-pe-tek», ripete incredulo scuotendo la testa e facendo rollare allegramente la erre, «ve lo faccio vedere dal finestrino!»
E mentre ci passiamo vicino a tutta velocità, ce lo indica ridendo a crepapelle: è un ripetitore gigante con un locale derelitto che gli spunta accanto, in mezzo alle sabbie, le piante spinose e il vento del deserto. In un batter d’occhio ci porta così a Turkmenabat, nell’albergo dove alloggia, ma appena sentito il prezzo di una stanza per due stranieri, ci invita a dormire nel suo autobus, con un litro di vodka e uno di succo di pera.
All’alba le bottiglie sono vuote, le ossa ammaccate, l’armeno rantola la sua erre sonora da un ebbro sonno profondo, la città è deserta.
Al pari di Merv, Turkmenabat è impressionante. I viali del centro accuditi da un esercito di giardinieri fiancheggiano i colonnati di marmo e gli stucchi dorati dei palazzi più importanti della città: la casa del presidente, il teatro, la biblioteca, la sala dei matrimoni. Li attraversiamo nella luce sonnolenta del mattino; ben presto la città sfuma di nuovo nelle sabbie del deserto in un conglomerato di muri di mattoni di fango e tetti di lamiera e amianto.
Il Turkmenistan stesso sfuma nel deserto, in un alone di mistero che pochi giorni di permanenza sono bastati appena a scalfire; un’altra terra si chiude dietro un sipario aldilà del quale è inutile e forse dannoso perdersi in considerazioni scontate e frettolose.
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