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Cronaca semiseria di un vagabondaggio Coast to Coast in Italia
Dal Protocollo dei Savi della bici / Convenzione di Anversa, 24 May, 1964.
“Il ciclista che si avventuri per le contrade italiche o per l’Europa dall’occhio circolare, rammenti che nel suo vagabondare egli rappresenta la dignità dei Savi della Bici, e come tale il suo comportamento, pur ammettendo accidentali devianze e conati creativi, andrà strutturato secondo una vigile prospettiva morale. In particolare vanno evitati come sconvenienti comportamenti quali ruberìe, raggiri, tradimenti, crapule, atteggiamenti viziosi, sodomìe, cene pantagrueliche, eccessi etilici, promiscuità sessuali, e tutto quanto possa alterare il regolare e giusto cammino, che è sempre e comunque un cammino verso la leggerezza dell’espiazione.”
“Il comportamento del ciclista sia dunque temperato, consapevole dell’alto valore etico del suo vagabondare, fiducioso dell’uomo anche quando si mostri in tutto il suo irrazionale non sense, attento al valore del reale, mai succube di esso, orgoglioso del suo andare, dall’alba al tramonto, sotto qualsiasi tempo e condizione stagionale, scudiero di un’idea, slancio vitale che risplende di se stesso, incarnazione della fatica universale che tutto smuove e incessantemente dispone, in un equilibrio continuamente da rinnovare.”
“ Il ciclista sia umile, prossimo alla terra che cicla, perché nella condizione dello sforzo costante all’umiltà sta la lentezza di un miracolo, perché nell’andare è implicita la salvezza di chi va, bipede o velocipide che sia, camminare il mondo come un cavaliere errante di fine millennio, oppure pedalarlo e quindi renderlo più prossimo nelle sue contrade varie e multiformi, diversi gradi di lentezza lo catturano e rendono il viaggiatore degno dell’amore di un Dio, quel Dio che impaziente ordisce l’infinita trama del vivere "
Procediamo indomiti
“coast to coast ”,
nessuna parodia è possibile,
visto che i cabasisi infiammano,
il sudore allarga la percezione,
noi manteniamo l’equilibrio
come condizione necessaria all' andare
perché,
in bicicletta siam giunti,
ed è implicito il proseguire.
Da Teramo a Civitanova Marche
in treno,
poi, tre bici, tre cuori, lungo un’Italia
che ci ignora,
piantiamo il coltello vitale
per affermare il sacrosanto diritto
alla nostra fottutissima lentezza.
Libr’Osteria Le Sorgenti Bolsena 11 luglio 2013
Coast to Coast
Arrivi, scendi dal treno, ti guardi intorno, magari vai in bagno, fai colazione, e poi… sali sulla bici e via con le prime pedalate, ti senti euforico, godi di quel momento, invulnerabile dribbli il traffico con lo sguardo fiero e te ne vai per sempre lungo una delle infinite strade del mondo.
Primo giorno: Civitanova Marche – Foligno
Ti sembra così facile, così giusto solo nel dirlo.
Siamo attenti ad evitare la superstrada ma ci ritroviamo con dei lavori in corso giganteschi, decine di cantieri aperti con degli accattivanti nomi americani, tanti camion che ci passano accanto lasciando polvere e rumore, l’Italia sventrata nel terzo millennio. Superiamo Tolentino, pausa pranzo, comune di Serrapetrona, lago di Caccamo, primo errore della giornata, 24 euro di antipasti e 11 di bevande, cioè birra in prevalenza.
Ci spiaggiamo su due panchine ai bordi del lago che nel fondo è abitato da mostruose carpe, animali che a me sembrano così preistoricamente brutti, ma pure noi tre non scherziamo con l’abbigliamento da ciclisti, alla disperata ricerca di un momento di oblìo, mentre sappiamo che lassù ci aspetta Colfiorito e poi la discesa a Foligno. Ci alziamo dopo un tempo variabile con gli occhi spiritati e l’incedere incerto, risaliamo sui nostri destrieri e scopriamo, prima di abbandonarla, che Caccamo deve il nome ad una lontana penetrazione di Siculi tanto tempo fa; commossi dagli intrighi fascinosi della Storia ci allontaniamo per divenire puntini all’orizzonte mentre laggiù le carpe brontolano un incomprensibile refrain di quotidiana omertà e il tempo comincia un pianto sottile.
Su questo tratto di strada ci siamo solo noi tre, uno si chiama Andrea e diventerà il Capitano, e tanti camion che, come operose api, prendono e scaricano becchime edilizio nei cantieri, dai nomi americani, dei quali pullula l'intera zona. Pioviggina. Superato il Castello di Serravalle, comincia la salita di Colfiorito, agevole, arriviamo al valico, una fontana affollata, acqua fresca, uomini che riempiono bottiglie e damigiane. Beviamo lieti, pure Enrico beve, Enrico il Calvo, colui che disdegna in genere le acque sorgive a meno che non siano certificate dall ‘U.E o da un B.I.M. transnazionale.
La strada rimpiana e poco più tardi comincia la discesa e dietro una curva appare Foligno in tutta la sua seduzione medievale. Pur essendoci ripromessi durante questi primi 115 kilometri di evitarla e di tirare oltre, qualcuno disse fino a Bevagna decantandone le innumerevoli virtù, Foligno ci incanta perché è raccolta e soprattutto perché stiamo scendendo vertiginosamente per abbracciarla, siamo stanchi, e così ci ritroviamo in pieno centro storico con dei lavori in corso. Consumiamo tre Peroncini a quindici euro e cerchiamo un albergo dove riposare le nostre membra. Scopriamo ben presto che un evento inatteso ha sconvolto la tranquilla vita della cittadina umbra: un concorso del corpo militare l’ha improvvisamente popolata, riempito hotel, pensioni e ostelli, eppure avevamo detto di volerla evitare e di tirare oltre.
La Casa Mancia, alla fine, ci accoglie come cavalieri erranti, mentre la notte abbassa i toni e porta sollievo al nostro andare. Cena in pizzeria e le birre non fanno altro che accrescere il desiderio di un sonno profondo, vista la levataccia della mattina per prendere il treno e cominciare la nostra avventura in bicicletta. Alfine dormiamo, la fatica della nostra prima giornata si stempera, qualcuno russa, tutti, al mattino pensiamo di stabilire dei turni alle espressioni notturne. Una ricca colazione, le abluzioni rituali e si va.
Secondo giorno: Foligno - Bolsena
I cavalieri escono dalla Casa Mancia in cerca di nuove avventure, direzione Roma, bivio per Bevagna, si comincia a salire seguendo le indicazioni per Bastardo e San Terenziano. Aumenta pure il caldo, un viadotto e dietro una curva ci mostra Todi in lontananza, non ci saliremo, oggi ci sono tanti chilometri fino al lago di Bolsena. Si scende fino al bivio per Todi: la mia Lee Cougan raggiunge velocità futuriste, Enrico supera tutti con la sua Protex a cui ha applicato due ruotini da strada che certo sminuiscono la plastica e robusta bontà della sua bici, facendola assomigliare ad un gigante con i piedi di argilla, mentre il capitano Andrea, a cavallo della sua Bianchi Kuma, non mostra alcun segno di cedimento. Pausa sotto Todi, prendiamo dal Web una lirica di Jacopone, così, per rendere omaggio, e compunti e sudati, prima di pranzo leggiamo: “ Quando t’aliegre, omo d’altura / va’ poni mente a la sepoltura/ e loco pone lo tuo contemplare / e pensa bene che tu dii tornare / en quella forma che tu vide stare / l’omo che iace en la fossa scura”.
Enrico piange sul memento mori, forse è un po’ esagerato e allora leggo : “ O iubelo del core / che fai cantar d’amore! / Quanno iubel se scalda / si fa l’omo cantare / e la lengua barbaglia / e non sa che parlare: / dentro non po’ celare / tant’è granne ‘l dolzore.”
Così, come se fossimo stati tutti assolti da Jacopone, pieni d’amore e di afflato mistico, consumiamo un frugale pranzo e tanti litri di acqua mentre il tempo, come previsto da copione, è già avanti nel suo turbamento. Ripartiti alla volta di Orvieto, ci immettiamo su una strada molto super, comincia a piovere. Primo ponte sul Tevere, vorrei fermarmi per cercare qualcosa ad hoc sul fiume sacro ma gli altri mi guardano in cagnesco intimandomi di proseguire. Si sale per viadotti, il fiume scava un solco profondo e ampio laggiù, indossiamo i copripioggia e così, leggeri, costeggiamo il lago di Corbara e i suoi vigneti per poi ritrovarci sotto la rupe di Orvieto. Enrico propone di salire lassù, ne viene fuori una vivace discussione. Alfine faccio valere le mie ragioni e si prosegue. Aggiriamo la rupe e ci fermiamo per una foto con Orvieto alle spalle, quando è già cominciata una salita che si rivelerà estenuante verso Bolsena. Distribuisco Alpenliebe ai miei compagni e si prosegue il viaggio. Intanto la pioggia si attenua e lentamente ci lascia con la sensazione che il suo ricamo ha reso ancora più magico il nostro vagabondare in bici.
Eppure si sale, non si arriva mai, non sono quelle salite coi tornanti, sono dritte, stancanti. Scendo e vado a piedi. Subito si presenta un messaggero a chiedermi: - Ehi Lino come va? - Domanda del cazzo visto che mi sono scassato i cabasisi di questa salita e rivendico il diritto di andare a piedi. Cammino per venti minuti abbondanti, risalgo, bivio per Bolsena, si rimpiana e poco dopo, si scende a rotta di collo fino al centro del paese. Ci accampiamo al bar per il rituale delle birre e per tastare il polso a questa gradevole e sicuramente fresca località, visto che porta ancora i segni di un temporale. Troviamo l’albergo a due passi dal bar e ci prepariamo per quella che sarà una serata etilica e non solo. Più tardi, rinfrancati dalle sacre abluzioni, percorriamo il corso Cavour e prendiamo posto all'esterno della Tavernetta. Comincia così una cena un tantino esagerata a base di spaghetti alla carbonara, pennette alla boscaiola, patate fritte, bistecche rucola e grana, il tutto innaffiato da ben tre litri di bianco della casa, un bianco dall’incerta qualità e che certo contribuirà al malessere successivo. Tre litri di vino sono però sufficienti ad innescare un meccanismo di abbandono confidenziale rinforzato dai cento chilometri percorsi e allora di cosa parlano tre maschietti alla deriva per l’Italia se non del lato oscuro della luna e di se stessi? Delle donne naturalmente! Alfine ci alziamo tra lo stordito e l’euforico e gironzoliamo per il Corso, quando al numero 75, veniamo incuriositi da un caffè libreria, Le Sorgenti.
Vi entriamo,consumiamo due giri di amaro, attacchiamo discorso con le proprietarie, spulciamo tra i libri, ci attardiamo nella notte quando, ispirato dal Nume, chiedo se c’è una chitarra. Comincia allora una nuova fase mentre il giovane cameriere macedone ci osserva divertito e un poco scocciato quando difende la sua identità affermando che la Macedonia non ha nulla a che fare con la Grecia, nonostante o grazie ad Alessandro Magno che io chiamo in causa per vanità storica. Intanto siamo riuniti intorno ad un tavolo piuttosto ubriachi e si sente, anche se di tanto in tanto la tromba vocale di Andrea e il mio pizzicare le corde trovano convergenze ben oltre la decenza, e così tra musica e amenità varie ci intratteniamo con le nostre gentili dame, creature di uno spazio iperboreo, lasciando riverberare musica e parole, quelle dette tra i fumi della stanchezza anche etilica, e quelle scritte, a memoria del nostro passaggio. Sono le tre passate quando raggiungiamo l’albergo, barcollando per le strade di Bolsena, comincia una notte perigliosa per un sonno turbato da eccessi vari. Con la Convenzione di Anversa gettata nell’angolo più remoto della stanza, riscopriamo quel lato rapsodico appena al secondo giorno di ascetismo su due ruote.
Terzo giorno: Bolsena - Albinia
Al mattino fa caldo, sono le nove, ci pervade ancora il seme di una notte “ curvata ” , avremo tempo per rinnegarla quando la strada si farà rovente e Albinia e il Tirreno tanto lontani e noi così piccoli.
Si va, scherziamo tra di noi, risale l’alcool in circolo, la strada è lunga, superiamo l’area del lago, saliamo per Gradoli, incrociamo la Via Francigena, sfioriamo Pitigliano, la rocca nel tufo, e ancora su per Manciano. La fatica è confusa, come l’alcool che ancora trasportiamo.
Pausa cocomero sulla strada: provvidenziale. Divoriamo cocomeri come dei ciclisti assetati, scherziamo col piccolo della coppia che gestisce il chiosco. Entriamo nella zona delle terme di Saturnia, scendiamo nel piano. Albinia non è lontana, sono stanco di pedalare, però noto con piacere che la Lee Cougan in pianura è magica, mi sento come se guidassi una bici con la pedalata assistita, prendi il ritmo e quella ti porta come se avesse un motore. Ma intanto sparlo per strada, ogni tanto emetto dei latrati inquietanti, adesso me la prendo con i miei compagni di viaggio. Loro sghignazzano, mi avvicino ad Andrea, digrignando i denti e cercando di speronarlo. Non fa una piega il maledetto, l’apostolo del sacrificio fisico, l’Eternauta, tutto tranquillo a pedalare, quando arriva la prima foratura della spedizione: Enrico ha la bici a terra, urge una riparazione visto che non si è portato una camera d’aria di scorta. Cominciamo a discutere animatamente sulle giuste sequenze da rispettare sforando i 30 minuti previsti anche dal manuale del giovane tardone, ma arriva Albinia, che bello, mi distendo. E il mare? Non c’è il mare, scendiamo a chiedere in un punto informativo, una simpatica ragazza ci indirizza , il mare è ad un paio di chilometri, superato il cavalcavia sopra l’Aurelia. Risaliamo sui destrieri. Alfine il Tirreno ci accoglie indifferente, consumiamo il rito, un bagno collettivo, foto di gruppo, l’andare si è concluso, qui vicino scorre l’Aurelia, la strada da evitare, per un ritorno da inventare.
Alle 19, ora locale, cominciano i festeggiamenti in onore di San Albinio, protettore di Albinia. Entriamo nel Duomo per ringraziarlo. In comune il sindaco si fa negare, manda l’assessore a riceverci. Veniamo intervistati dalla Signora Wilma Tucci, assessore per l’integrazione, mentre un cameramen di Tele Albinia con lo scalpo di un Cerokee, filma l’evento. Alla fine sono solo ad affrontare le domande della Tucci, i due, quei due, lanciano sorrisi da ebete ma non parlano. Che dirle? Mi invento una specie di trama storica sui processi culturali che legano le due sponde dei mari, ribadisco la necessità di potenziare questi legami anche attraverso i gemellaggi, mi avventuro in una generosa digressione sul nomadismo come ricerca e sulla lentezza come valore. Quando arrivo alla decrescita felice, il cameramen mi guarda divertito mentre la Wilma, in un regurgito di attenzione, accavalla le gambe, mostrando orizzonti adiposi a perdita d’occhio. I due maledetti tacciono, annuiscono ad intervalli regolari, ma la Wilma, lesta, li apostrofa cercando di coinvolgerli nel raccontare il loro punto di vista. Enrico, colto alla sprovvista, farfuglia qualcosa sui processi termali applicati ai velocipidi attuali, nessuno capisce un tubo, ma io fingo una grande serietà di fronte a tale profondità metafisica mentre vorrei sprofondarmi. Andrea invece cita il fascino di questa nostra Italia, la pioggia tra Todi ed Orvieto, il lago di Corbara, e tutti veniamo presi da un' ondata malinconica mentre il cerokee intona Povera Patria di Battiato, e la Tucci gli fa eco una sesta sopra. - Cazzo, la sesta, - esclama allora Andrea, mentre io mi alzo e disegnando cerchi nell’aria mi allontano a passo di danza, seguito a ruota da Enrico, Andrea, la Wilma e il cameramen che chiude il balletto. Stasera pesce, siamo tutti d’accordo, sul vino si alzano voci di dissenso, presto ridotte al silenzio. Da preziose informazioni carpite all’Hotel Corallo, raggiungiamo il ristorante dopo aver imboccato un sottopasso proprio sotto l’Aurelia, la statale numero 1, la prima, pericolosissima, impossibile con la bici, dobbiamo studiare un percorso diverso.
Pranziamo alla periferia di Albinia, il pesce non è il massimo, prendiamo un primo litro di bianco della casa così per provare, stasera siamo tutti più soft, ci scaldiamo un po' ridendo per la scena di poco fa e poi la stanchezza è anche lisergica. Nessuna notte “curvata” all’orizzonte, solo il letto che ci attende e le prime ipotesi per quello che sarà il lungo estenuante viaggio di ritorno.
Smentiamo subito alcune voci malevoli che ci avrebbero visti, alle prime luci dell’alba, prendere il locale Albinia Roma, quello delle 06.22, tanto per intenderci, così, per un comodo rientro in terra d’Abruzzo. Esiste una frange consistente tra di noi che giura, e si commuove nel dirlo, che il nostro rientro avverrà attraverso il lago di Campotosto, e, a tal riguardo, si comincia a fantasticare che è proprio da lì, nel cuore dell’Abruzzo montano, dal nostro amato lago, che torneremo a casa.
Quarto giorno: Albinia - Viterbo
L’indomani fervono i preparativi per la partenza. Usciti da Albinia, percorsi una decina di chilometri, svoltiamo a destra e dopo un breve tratto ci ritroviamo su una carrettera brecciata, la seguiamo per un tempo indefinibile senza incontrare anima viva, solo polvere, qualche rigagnolo, il caldo che sale, le cicale in regime di basso continuo, La Polverosa, recita la cartina, la Maremma Toscana in mountain bike e in assoluta solitudine. Rientriamo sulla provinciale verso Capalbio e di lì arriviamo a Canino. Ci rifocilliamo con gelati e litri di acqua in un bar sulla strada nei pressi di una fermata dell’Acotral, dove ragazzi bianchi e di colore, cuffie in testa, attendono l’autobus che li porterà al mare, a Montalto Marina, mentre un gruppo di Canini osservano il tutto con la tipica indifferenza Tuscia di cui non si finirà mai di parlare. E noi ? Tre pellegrini sulla via del ritorno: Enrico è acchittato come un ciclista della Tirreno Adriatico, l’altro, Andrea, sembra adesso Indiana Jones nel tempo libero, ed io? Io sono quello che scrive e quindi sembro una specie di viaggiatore su bici, però sono solo quello che scrive. Si riprende il cammino, Tuscania e da lì per Viterbo. Poco oltre ci rendiamo conto di essere dentro una strada a veloce percorrenza ed anche piuttosto stretta. La stanchezza sale ed anche il nervosismo per simile stressante situazione. Allle porte di Viterbo, zona industriale piena di capannoni con tanti Affittasi, trovo la città decisamente squallida ma forse è solo l’effetto della stanchezza che si mescola alla visione di brandelli insanguinati di neo liberismo. Viterbo, capoluogo della Tuscia laziale, è una città medioevale ed è per questo, ci spiega la simpatica ragazza alla reception, che tutti vanno in macchina divertendosi un mondo ad intasare il centro storico. Andrea intanto , preso da furore esplorativo, comincia a vagliare le strade del ritorno. A tal fine, da un primo abboccamento con un signore dell’hotel che poi scopriamo essere il fratello della proprietaria, scopriamo che la strada porta necessariamente a Terni e da lì poi si vedrà; non pago e prevedendo sciagure, il nostro interpella il cugino Claudio che da Casterno, si presta ad essere il nostro navigatore informatico di fiducia. Tutti sembriamo rassicurati da simile ala protettrice e così ce ne andiamo a mangiare seguendo le informazioni della proprietaria dell’hotel, una simpatica signora che, saputo della nostra avventura ciclistica ci ha preso a benvolere. A Viterbo naturalmente impazza una festa medioevale da cui ci teniamo prudentemente lontani: ne cogliamo solo gli echi nella piazzetta dove arriviamo per un gelato. Buonanotte!
Al mattino con molta calma facciamo le abluzioni rituali, è Domenica 14 luglio, mi sembra una vita che pedalo. Enrico ridefinisce con una lametta i contorni del suo pizzo mentre ipotizza, visto che è la festa del Signore, di mangiare la pasta al forno. Intanto si va, la simpatica signora ci immortala fuori dall’albergo e ci augura un felice rientro in patria.
Quinto giorno: Viterbo - Terni
Lasciamo Viterbo una mattina d’estate seguendo le indicazioni che abbiamo raccolto manualmente diciamo, insieme a quelle che ci arrivano dal Web. Sosta al Santuario della Madonna della Quercia dove entro per una preghiera; i Savi della Bici si alzano dai loro antichi scranni ed applaudono al sottoscritto, mi sento investito come un cavaliere errante e soprattutto responsabile del buon esito di questo viaggio di ritorno per me e per i miei compagni. Si lascia una sonnacchiosa Viterbo, direzione Terni, si sale per Amelia, il pensiero corre alla comunità di recupero oppure all’esperienza di Alcatraz di Jacopo Fo. La nostra prigione è la salita, la bici quotidiana, il culo in rivolta, i calli che mi fanno male dentro delle micidiali scarpe da calciotto, lo so, è una delle mie genialate; lo zaino mi solca la schiena, mi metto a cantare una canzonaccia sui Paralipomeni della Batracomiomachìa. Enrico mi guarda tra lo schifato e il pietoso, passa oltre, sembra un gregario della Tirreno Adriatico, lo odio per la sua meccanica costanza, rimango da solo a meditare su Amelia e sulla necessità di un ricovero immediato al primo presidio ospedaliero, un approccio psicosomatico per il mio insignificante, tragicomico dramma. Da lontano presto attenzione al fatto che Enrico si alza sempre più spesso sui pedali, mentre biascica delle parole che solo i folletti dei boschi di Amelia possono intendere, ma io intuisco che il " mal di culo " da oggi non è solo mio. Andrea invece prosegue eroico, stoico, impassibile, solo. Giungiamo ad Amelia: la ragazza del bar si chiama Toderita e ci assiste con gelati e piadine; un avventore ci mette la pulce di Leonessa nell’orecchio, non è un ossimoro, è la via di fuga dalla Salaria di domani, ma tutta in salita. Andrea si infiamma, gli occhi gli sparlucciccano per l’emozione, già ma come si arriva a Leonessa? Intanto, se i pensieri si incespicano, le bici vanno per inerzia: Narni scalo, la rocca su in alto con il suo sommerso, Terni in lontananza. Seconda foratura per Enrico, seconda toppa, non durerà. Raggiungiamo il centro cittadino, cerchiamo un albergo e ne troviamo uno a prezzi stracciati, 20 euro per una singola. Recuperiamo Enrico con la gomma a terra e ci ricoveriamo nel suddetto. La signora Vincenzina è un’altra simpaticona, claudica per un’anca operata ma ha buona favella e si intrattiene con la nostra stanchezza. Saliamo nelle nostre camerette singole, godo nello stare solo, finalmente solo senza quei due gufacci, mi faccio una doccia e mi stendo sul letto, qualcosa non torna, fa caldo, maledizione, senza condizionatore che condizione avrà la notte? Alfine scendo di sotto e mi intrattengo con Vincenzina, lei mi parla delle sue visite a San Gabriele, sento aria di casa, di una brutta caduta da una sedia giocando a carte con le amiche, il principio della sua zoppìa. Poi mi racconta di quella ciclista tedesca, ultrasettantenne, apparsa nel suo albergo, destinazione Brindisi, volontà di imbarco per l' Albania, mai più tornata, a suo dire. Un bel modo per uscire di scena, commento io, e intanto scende Andrea che mi fa cenno di uscire e di seguirlo. Attraversiamo la strada, ci sediamo sulla panchina di un piccolo giardinetto.
- Scrivi, - mi dice. Annoto compunto una sequela di località mai sentite in vita mia, tra cui Forca e Labro, mentre Andrea segue con sguardo fiero la cartina, come un segugio alla cerca del tartufo, annusa, capta, intuisce passaggi e corridoi, cazzo, mi dico, questo è Indiana Jones a tempo pieno, comincio a sospettare che voglia aprire una via nel bosco visto che continua a ripetere: - Eppure ci deve essere la strada per Leonessa. Comincio a sentire puzza di guai e già li vedo i portatori filippini trapiantati nel Ternano che si rifiutano di proseguire mentre Andrea impreca e li frusta, quando ecco che sopraggiunge Enrico che comincia pure lui a scrutare il territorio.
È una breve guerra ad armi impari: la scienza squarcia il velo, l’esploratore Andrea ridotto al silenzio da un cellulare che implacabile trova comode strade e banalizza il mistero della scoperta personale, vabbè non è che pensavo tutte queste amenità, però sono sicuro che mentre Enrico elencava le tappe per l’indomani, Andrea si è intristito per la banalità del vivere.
Cena in pizzeria a due passi dall’hotel, passeggiata per una Terni afosa, ancora un gelato, una foto davanti alla fontana centrale, rientro nei nostri personali fornetti per la sauna notturna… Ho rientrato tutto un gregge di pecore stanotte e il pastore, macedone, mi ha preparato pane e ricotta fresca. Mezzo rincoglionito scendo sotto e torno in centro per prelevare soldi, per strada prendo un caffè gestito da una coppia cinese, passo il ponte sul Nera e mi godo il fresco del mattino. Al ritorno aspetto che Enrico e Andrea facciano la loro comparsa. Ecco Andrea. Enrico via etere annuncia il suo ritardo; lo vediamo infatti arrivare poco dopo dolorante e pure lui provato da una notte difficile.
Sesto giorno: Terni - Leonessa
Alle ore nove siamo appostati vicino alla bottega del ciclista, saracinesca abbassata, lunedì mattina. - E’ bravo ma un po’ rapsodico nel lavoro, - ci ha detto la Vincenzina sorridendo. Il cambio della camera d’aria viene salutato con un sospiro di sollievo da parte nostra mentre una cosa è sicura: ci attende una tappa di montagna. Andrea è in visibilio, noi due no! Alla prima svoltata a destra comincia la salita verso il lago di Piediluco. Ma questa è la Salaria, mi dico, appena mi rendo conto di essere superato da un serpentone di Tir. - Se si incrociano in due ci fanno a fettine, - mi lamento con i miei camerati, nessuna risposta, loro procedono noncuranti, quasi sprezzanti del pericolo. Io lo so che oggi sarà una giornata di passione, i giorni di bici me li sento tutti addosso. Arriviamo davanti al lago di Piediluco e poco dopo la Salaria gira a destra verso Rieti, noi si va a sinistra, in un territorio sconosciuto. La strada sale, sempre sale ed io cedo e proseguo per inerzia, non mi giova la pausa pranzo, sono alla frutta, e come me anche Enrico mostra segni di sofferenza acuta. Alfine scendiamo dalla bici. I Savi plaudono, anche se il rappresentante fiammingo e quello bretone ridacchiano appellandosi ad una presunta mollezza italica, mentre il nostro Saggio li rimbrotta tagliente chiamando in causa il diritto del cicloturista alla lentezza. Andrea intanto fa da apri pista e lo lasciamo andare in avanscoperta, io ed Enrico camminiamo nel bosco lungo una strada che sale e non sembra voler finire e la meta sembra una mirabile visione tutta da venire. Ed è così, alternando il camminare alla bici, è così che alfine giungiamo a Leonessa, antica cittadina posta a confine tra lo Stato Pontificio e il regno di Napoli, come recita quel tanto agognato cartello che ci riempie di commozione e di tutto l’amore universale. Giunti al centro ci godiamo un boccale di birra, mentre la piazza assolata mi sembra un angolo della Spagna o del Messico. Il signore della birreria ci da le indicazioni per l’affittacamere con la speranza di rivederci stasera per cena nel suo ristorante. L'aria è fresca, il paese accogliente , ci prepariamo per la serata e dimentichiamo gli affanni della giornata. Cena montana con gnocchi al sugo di castrato, carne alla brace e vino rosso, intanto si discute sul da farsi. Enrico è ricorso alla crema per bambini, siamo stanchi e doloranti, confidiamo nella notte fresca, una giornata di fermo potrebbe giovarci, intanto andiamo a dormire e la notte ci regala il giusto riposo.
Settimo giorno: Leonessa - Lago di Campotosto - Teramo
Al mattino siamo io ed Andrea ad alzarci e di buon ora ce ne andiamo a fare colazione nella vicina pasticcerìa, siamo in attesa di saper come sta Enrico, non escludiamo l’ipotesi di rimanere in loco, oppure, di ficcarlo dentro una diligenza che lo avvicini a Campotosto. Al rientro in camera, lo vediamo che armeggia dietro creme e integratori, proverà a salire verso il lago che lassù ci aspetta come un vecchio amico che non delude mai. On the road, ancora , lasciamo la splendida Leonessa e scendiamo lungo un viadotto alla volta di Posta dove arriviamo in circa mezzora. Imbocchiamo la Salaria, direzione Amatrice, sono in uno stato tra l’esaltato e il disperato visto che sparlo ad alta voce, canticchio, gioco con le parole, le trasformo e le dilato, eppure si va lungo una Salaria montana che non ha più nulla di pericoloso e arriva l’uscita per Amatrice e pure la pausa. Enrico scende dalla bici nell’errata convinzione che il mondo lo debba risarcire per la sua eroica sofferenza, ma nessuno di noi lo appoggia quando afferma di volere una amatriciana che sarebbe ingombrante poi trasportare fino a Campotosto. Nel primo pomeriggio, saranno state le 14 di un martedì 16 luglio, lentamente la strada sale, sappiamo che è l’ultima salita della nostra impresa, sappiamo che ce la possiamo fare. Enrico scende dalla bici, io gli affido le sue scarpe per camminare e pedalo verso il lago. Andrea è già solo un’idea all’orizzonte. Ed è così che procediamo, tre monadi sotto un impietoso cielo estivo, del lago appena il sentore, ma io continuo a non credere che lassù ci sia Campotosto, la strada adesso è un falsopiano, mi sembra tutta una fiaba questo nostro andare, incrocio un punto di ristoro, non riconosco neppure Poggio Cancelli se non quando vi entro dentro. Andrea mi attende nei pressi della fontana, mi disseto e subito, Enrico , stupendoci, sopraggiunge sorridente. Poco dopo c’è veramente il lago, mi sembra un altro, ma forse è la stanchezza, oppure esservi giunti da una direzione ostinata e contraria. Alfine ci ricoveriamo presso Serena, panini col prosciutto e birra ma niente bagno, tira vento e abbiamo freddo. Serena, immagino, ci chiede da dove veniamo e al nostro dire ci guarda con quella lontananza con cui si guardano gli eroi o gli impostori. Veniamo da Albinia, acqua del Tirreno, oppure dall’Adriatico partimmo, ma in fondo il lago ci ha accolto, è lì vicino a noi, sa tutto del nostro viaggio visto che lo abbiamo onorato tornando da lui. Siamo a casa, e il riscendere verso Teramo è il necessario corollario di un qualcosa che si è già compiuto. Il nostro viaggio si è concluso con la visione dell’acqua, così come era partito. Cala il sipario, ma la strada rimane dentro di noi, è dentro i nostri muscoli, dentro le nostre teste, un patrimonio perenne, l’inizio di altra strada e di altra fatica. I savi si alzano dai loro imponenti scranni, l’Italico strizza l’occhio al Bretone, e tutti insieme lasciano la stanza, lentamente si chiude la porta, domani una nuova scena, altre avventure in bici da proteggere, altre anime salve da non dimenticare.
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Ultimi commenti
Oggi con una ebike si possono fare dei percorsi impegnativi fisicamente (per una bici senza motore) ma per quanto riguarda la tecnica non tutti possono fare dei giri tecnicamente difficili.
Io, con i miei 67 anni, cerco giri fino a 1500 m di dislivello, ma non troppo difficili tecnicamente per potermi gustare pienamente i paesaggi e i posti, senza dover rischiare su single trail esposti.
Grazie Enrico