Colori vivaci, intensi, quasi surreali. Orizzonti a perdita d'occhio che animano sogni di libertà e di lunghe pedalate nel tramonto africano, la Dancalia, o triangolo di Afar, è una regione davvero unica nel suo genere. Dai 25 ai 48°C, dal Gibuti, all'Eritrea e all'Etiopia, la Dancalia solletica da sempre la voglia di avventura dei cicloviaggiatori... ma prima di organizzare un viaggio e partire, facciamoci ispirare dai racconti di Caterina Borgato, viaggiatrice a due ruote e guida in Dancalia.
Perchè hai scelto di viaggiare in bici in Africa, ma soprattutto perchè la Dancalia?
Il viaggio in Dancalia etiopica faceva parte del progetto di ripercorrere in bicicletta le vie delle grandi migrazioni umane a cui avevo pensato dopo aver visto la mostra “Homo sapiens”; nella mia mente voleva essere un omaggio a chi ha iniziato a camminare in Africa per spostarsi in tutto il resto del Pianeta. In Dancalia sono stati trovati i nostri antenati più antichi, da lì hanno deciso di iniziare il loro incredibile e straordinario viaggio. La Dancalia e l’Etiopia, come lo Yemen e Socotra, la Mongolia, la Patagonia, il Nepal sono luoghi che mi sono particolarmente cari e dove, per brevi o lunghi periodi, ho vissuto e lavorato. La Dancalia mi ha “folgorata”, per la sua immensa e unica bellezza, per la sua energia e per il popolo che riesce a viverci, gli Afar, gli uomini della lava.
Quali sono le difficoltà nell’organizzazione di un viaggio in Dancalia in bici?
Per viaggiare in bicicletta in Dancalia è necessario soprattutto conoscere bene il territorio: le piste da percorrere non sono sempre le stesse e possono variare a causa del vento o dell’acqua che scende dall’altopiano etiopico o dalle Alpi Dancale, è importante sapere dove è possibile trovare acqua, dove fermarsi per la notte e affidarsi a collaboratori locali fidati per ottenere i permessi necessari per attraversare quel territorio nel rispetto di tutte le regole e senza avere problemi. Inoltre avere un buon rapporto con il popolo Afar è indispensabile per capire ed amare ancor più quella terra. Non basta seguire una traccia nel gps o esserci “passati” una volta.
Ci racconti tre luoghi, tre scorci, tre colori che caratterizzano questo angolo di Africa?
Luoghi...
- Ahmed Ela: Ahmed Ela sembra un miraggio, un villaggio che è cresciuto come “campo base” dei lavoratori della Piana del Sale, costruito con materiale di recupero, come se i pezzi fossero stati raccolti in giro dopo la grande piena improvvisa del fiume. Ci sono la scuola, la moschea, dei piccoli bar, un emporio fornitissimo e un fornaio. Gli abitanti più importanti di Ahmed Ela sono, oltre all’imam, l’esattore del sale e l’affilatore dei picozzini che servono per dare forma ai blocchi grezzi di sale staccato dalla superficie della piana.
- Asayta: l’antica capitale del sultanato dell’Aussa, una specie di oasi lungo l’antica via carovaniera che da Tadjoura, sul mar Rosso, arrivava alle sponde del fiume Awash le cui acque rendono la terra fertile e generosa. Al mercato settimanale l’aria polverosa odora di peperoncino e burro; le donne afar vendono stuoie intrecciate di palma dum e gli uomini pelli intere seccate di vacca. La moschea ha un minareto verde smeraldo che sembra un faro che non ha mai sentito il rumore del mare.
- Krswad: sono tre grossi tank per l’acqua potabile ad avvertire ogni volta che manca poco per arrivarci. Ho spinto bicicletta per ore per arrivare fino a qui, avvolta da polvere borotalcata e impalpabile, sollevata ad ogni mio passo. Ricordo ancora l’odore salato di quella polvere. Qui ho incontrato sempre e solo uomini, qui si assegnano le scorte a chi viaggia verso la “montagna che fuma”, l’Erta Ale, qui ho bevuto sempre buonissimo tea
Colori...
- Il colore della polvere e della lava: la Dancalia potrebbe sembrare una terra monocromatica, fatta di quantità immense di lava uscite dal nucleo della Terra, di sale, di sabbia e di polvere. Anche la polvere ha le sue sfumature, le sue gradazioni, si attacca al corpo come una seconda pelle, entra nelle orecchie, nel naso, negli occhi, nelle fibre dei vestiti e da lì non ne esce mai più. Le burra degli Afar e le capanne di Ahmed Ela hanno lo stesso colore della polvere sollevata, quando spira, dalle raffiche del khamsin; anche uomini e animali sono impolverati e in armonia cromatica con il tutto. E’ in questa apparente assenza di sfumature e di panorama che sono “nascoste” la ricchezza e l’immensa bellezza di questa terra benedetta. Ora pedalo una Salsa Fargo color della polvere e della terra di tanti paesi che mi hanno accolta: ogni volta che salgo in sella sento la meraviglia della libertà che solo la bicicletta riesce a donare.
- I colori di Dallol: Dallol è un luogo psichedelico, un vulcano strano, sopra la Piana del Sale; da lontano sembra una città e a me ricorda Sana’a, la straordinaria capitale dello Yemen, ma superata la bassa collina, si arriva in un mondo quasi magico e fatato, fatto di salgemma, argilla e gesso; dicono che sia esploso dentro la terra e che la sua forma visibile sia la conseguenza di questa energia a lungo repressa. Geyser grandi come uova di struzzo lavorate all’uncinetto e di un colore bianco accecante, laghi e pozze di acqua acida dalle tonalità che potremmo immaginare solo nella cartella cromatica di un programma di post-produzione fotografica… verde menta, giallo zafferano, viola melanzana, guglie stratificate nelle gradazioni del grigio che hanno la forma delle cime più incredibili della Terra, concrezioni evaporitiche multicolori dalle forme più impensabili, milioni e milioni di cristalli di sale che formano decori di bellezza e fragilità assolute.
- Il rosso della lava dell’Erta Ale: sembra il sangue della Terra, che in Dancalia si vede ancora in trasformazione, in mutamento, in divenire, nel suo “dentro”, come fosse ancora aperta, unico posto al mondo oltre all’Islanda. E’ qui che si è avvolti dal vero senso della Terra.
Gli incontri, più o meno imprevisti, rendono speciale un viaggio. Ci racconti il tuo più bello?
Dopo aver pedalato fino a Dallol, l’area più settentrionale della Dancalia etiopica alla quale è permesso arrivare, tornai ad Hamed Ela e da lì iniziai a risalire il fiume Saba, considerato la via leggendaria seguita dalla regina del popolo Sabeo in cammino dall’Arabia Felix verso la corte di Re Salomone e quella seguita da millenni dalle carovane che salgono sull’altopiano o scendono verso la Piana del Sale. Due giorni dentro il canyon scavato dal fiume le cui acque, appena trovano la libertà dalle pareti rocciose, finiscono la loro corsa e vengono assorbite da terra, polvere, sabbia, sassi e sale.
L’ultima ansa del fiume ospita un villaggio, poche burra, le capanne circolari del popolo Afar, una per famiglia, credo quattro, forse cinque in tutto. Qui ho incontrato Zhara, la caffettera del fiume Saba. A lei ho dedicato un racconto, che, spero, sarà presto parte di un libro
“E’ lei la donna Afar che ha deciso di aprire le porte della sua realtà allo straniero, ospitando per la notte, sotto un cielo meraviglioso, su letti di legno e fibre di palma dum intrecciate, chi è in cammino, assieme alle carovane del sale, lungo il greto del fiume. Il suo busto seminudo e ossuto, coperto in parte da un telo di cotone colorato e leggero, lascia intravedere il seno asciutto e due grandi capezzoli a lungo succhiati; ha gli incisivi limati a punta Zhara, come vuole la tradizione Afar. I capelli intrecciati le incorniciano il volto e fanno risaltare il suo sguardo intenso e profondo. Non porta al collo nessuna collana fatta con lo scroto essiccato del nemico ucciso dall’uomo che è diventato suo marito…questa è storia delle tradizioni del popolo Afar, a lungo rispettata: questa è sempre stata la prova di virilità di ogni uomo dancalo per poter prendere moglie. La sua burra, la tipica capanna afar dalla forma emisferica, che facilmente si smonta e trasporta, con il telaio piantato a terra fatto con le costole di foglie della palma dum, legate insieme con corde della fibra della stessa palma, è un punto di riferimento per le carovane che dalla
Piana del Sale risalgono verso Mekelle, costruita su una piccola altura, all’inizio del cammino; lei, Zhara,
fiera guardiana dei cancelli del fiume che si aprono sulla immensa e accecante distesa bianca, sembra salutare con un “arrivederci a presto” chi dalla Piana del Sale va verso l’altopiano o accoglie con “benvenuto” chi scende nella depressione.
Lenta, nobile in tutte le sue azioni, non ha paura di guardarmi negli occhi accennando un sorriso mentre, seduta su una stuoia polverosa e consumata, aspetto di sorseggiare il caffè che si è offerta di prepararmi. Il caffè in Ethiopia non è “espresso”; il rituale è una cerimonia, lunga, lenta, come lo scorrere della vita di chi incontro lungo il cammino… non bisogna avere fretta in Ethiopia se si desidera un caffè, né, ancor meno, se te lo offrono! La condivisione non è solo di sapori e profumi, ma anche di indimenticabili momenti di vita. Fuoco alimentato dal carbone, incenso, foglie di palma distese per terra e sulle quali avviene la cerimonia, una padella per tostare, un mortaio di pietra, la ghebenà, anfora di coccio dal collo stretto e lungo nel quale è infilato un tappo di stoppa, chicchi di caffè verde…la migliore qualità di caffè che esista viene dall’Ethiopia; questo serve a Zhara per preparare il suo caffè… l’aroma dell’incenso si mescola a quello, fortissimo, dei chicchi che si tostano lentamente sulla fiamma.
Mi piace pensare che questo profumo si diffonda in tutta la valle e sulle montagne aride intorno, che anche i carovanieri in cammino lo possano respirare e che possano pensare che Zhara lo stia preparando anche per loro; nel letto del fiume, un’immensa pietraia dalle mille gradazioni dell’ocra, scorre ancora poca acqua che permette ad un piccolo palmeto e al mais di un minuscolo fazzoletto di terra di crescere. L’acqua continua a bollire nella ghebenà…non so davvero quale sia il modo per capire che è ora, non so quanto tempo occorra perché la polvere tostata fatta bollire a lungo possa essere versata e servita…Zhara ogni tanto colpisce la pancia dell’anfora con un cucchiaino, ogni volta tre colpi lenti, quasi svogliati, poi la rimette sulla brace. In Ethiopia non si beve mai un caffè, ma un caffè è servito almeno tre volte, nella stessa tazzina piccola, sempre dai colori sgargianti. Le tazzine di Zhara sono sbeccate, le prende da terra, ne immerge una alla volta, con tutte le cinque dita, nell’acqua marroncina in un piccolo catino, le agita un po’, le posa sopra le foglie di palma e le riempie di liquido nero, fumante e profumatissimo. Guardo il mio compagno di viaggio…siamo in cinque seduti fuori dalla burra di Zhara, ma solo in due desiderosi di assaggiare il suo caffè. Ne bevo per tre volte, assaporo il gusto forte e respiro il profumo…
il caffè di Zhara, la caffettera del fiume Saba, ha aroma ricco e inimitabile che permane a lungo in bocca e sulla lingua…il miglior caffè che si possa immaginare di bere nella Piana del Sale. Il marito della caffettera, tagliatore di lastre di sale, pelle color del cacao liscia e lucida, magro, quasi secco, folta chioma riccioluta appena brizzolata, è seduto accanto a noi, i suoi ospiti forestieri. L’ho visto accucciato tra tantissimi estrattori, tagliatori e carovanieri mentre trasformava con il godumà, lo strumento di lavoro del tagliatore della Piana, la grezza e bianca lastra in ganfur, il mattone di sale “commerciale”,
l’oro bianco dell’Afar. L’ho riconosciuto anche durante un momento di riposo nel piccolo ristoro, uno dei due, della miniera a cielo aperto, tra pile di grandi mattoni di sale pronti per essere legati o già legati e pronti per essere caricati sui dromedari.
Teiere sempre fumanti, annerite dal fuoco e dallo zucchero del the o del caffè bruciati, pane a pezzi cotto sulla brace con pietre roventi…lui, inconfondibile, con la maglietta dai profili rosa e la tazza dello stesso colore. Nel periodo dell’andare e venire senza sosta delle carovane, la loro vita, assieme ai loro numerosi figlioli, è qui, all’inizio del fiume; sono loro due i guardiani dei cancelli che si aprono e chiudono sulla bianca e grande Piana del Sale profonda chilometri verso il centro della Terra, luogo che toglie il respiro per l’umanità che ho incontrato e per quello che ho visto”.
Viaggiare in bicicletta in Dancalia è pericoloso?
Perché pericoloso? Non ho mai temuto nulla e nessuno, come ogni volta che ho deciso di viaggiare o lavorare in paesi poco conosciuti o particolari.
Viaggiare in Dancalia richiede, dal punto di vista pratico, grande adattamento a situazioni logistiche molto basiche, ma soprattutto una grande motivazione, l’unica, insostituibile energia necessaria per poter pedalare anche con temperature elevate e la consapevolezza che una
corretta idratazione e protezione dal sole sono fondamentali per stare sempre bene
La tua professione è quella della guida, da quanto tempo lo fai e come hai iniziato? Perchè in Dancalia?
Ho lasciato un lavoro sicuro e che mi piaceva per seguire una passione che ho tanto faticosamente trasformato in professione; era il 2003, da allora non mi sono mai fermata. Le esperienze vissute lontano da casa, per brevi o lunghi periodi, mi hanno donato tantissimo, hanno alimentato la mia crescita, il mio desiderio di conoscere sempre di più luoghi e popoli con cui ho condiviso spazi, ma soprattutto momenti di vita. Da questo è nato il mio interesse per l’antropologia, per tutte quelle genti che riescono a vivere, nonostante tutto, in parti della Terra considerate estreme e impossibili da vivere.
Chi desidera conoscere questa terra come può contattarti per partecipare ad uno dei tuoi viaggi?
Sono sempre disponibile e ben felice di dare informazioni e, con la collaborazione di professionisti italiani e locali, di organizzare e guidare viaggi in bicicletta. La mia email è caterina.borgato[at]alice.it
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