Questo racconto fa parte del diario di viaggio a puntate scritto da Giancarlo Cotta Ramusino (in arte Girumin) che viene pubblicato in queste settimane. Potete leggere tutti i racconti già pubblicati nell'apposita sezione
Viaggio con la GOAT.
La Via Emilia in bici
E come la mettiamo con i re di Roma? I re di Roma qualcuno se li ricorda, raramente capita che si confondano Romolo e Remo, anche se talvolta si sbaglia la sequenza fra Tarquinio Prisco e Tarquinio il superbo. Comunque... solo le maestre ricordano tutti e tre, gli affluenti del Po, le Alpi e i re di Roma! Un’altra cosa che sanno fare le maestre è il portamatite con le mollette di legno rovesciate. Non nascondetevi, tutti voi avete fatto in seconda elementare un portamatite con le mollette di legno incollate a un vasetto! Se non avete fatto il portamatite avete fatto il portacandele, sempre con le mollette di legno, cambia poco... Chi non lo ha fatto ha corso il rischio di vivere esperienze di emarginazione sociale...
L’argine maestro incontra la Via Emilia, a dir la verità l’ultimo tratto della Via Emilia, prima del ponte sul Po, è proprio sull’argine maestro.
La stradina sterrata sulla quale sto pedalando prosegue parallela alla Via Emilia ancora un po’, ma la vedo scomoda per la Goat, farei una fatica bestiale. Mi butto sull’asfalto, la banchina è larga e ci sto bene. Argh!!! Eccolo, è il primo crampo alle gambe che si fa sentire in uno dei punti meno piacevoli, proprio all’inizio della curva della morte.
Non è il posto più indicato per fermarmi a soffrire, devo soffrire senza fermarmi. D’altronde non è che posso rimandare e soffrire dopo! In questa curva già il fatto di passarci in bici è un azzardo, fermarsi sarebbe pazzesco. Non so come, ma continuo a pedalare. È il primo tratto che percorro su una strada molto trafficata. Io però questa non la capisco proprio, perché c’è una doppia curva su una strada che ha migliaia di anni? Quando i romani hanno costruito la Via Emilia c’erano problemi a tirare delle strade diritte? C’erano solo prati e foreste e non potevano tracciare una strada diritta? Forse loro l’avevano fatta dritta e poi qualcuno gliel’ha spostata. Forse è andata così la storia: hanno spostato la strada quando hanno inventato le circonvallazioni e le tangenziali.
Sul fiume Po con la Goat
Arrivo al ponte sul Po, sono in carreggiata e mi rendo conto che c’è qualcosa di strano, sono troppo in carreggiata, il ponte è nuovo e non c’è la pista ciclabile? Eccola! È dalla parte opposta. Su quali studi scientifici si basano i progettisti per stabilire da che lato di un ponte costruire la pista ciclabile? Forse tengono in considerazione i venti dominanti, la direzione e la velocità della corrente? La confluenza del Capricorno con Orione e Saturno? No, niente di tutto ciò. È tutto molto più semplice, la pista ciclabile è dal lato del centro commerciale. No, non è vero, è giustamente sul lato del ponte verso valle, sul lato più protetto in caso di piena del fiume. Attraverso la strada e mi fermo all’inizio del ponte per scattare qualche foto. Non so... forse è vietato fotografare i ponti, in molti paesi è proibito perché sono possibili obiettivi in caso di guerra, ma da queste parti non c’è bisogno di bombardarli... Questo ponte è nuovo perché tempo fa era caduto poco dopo essere stato ristrutturato... Ha fatto tutto da solo.
Dopo il crollo del ponte ne è stato costruito uno provvisorio di barche, non si trattava di vere e proprie barche, ma il concetto è quello. Trattandosi di un ponte provvisorio era vietato il transito pedonale, in realtà era vietato il passaggio dei pedoni anche sul ponte precedente, quello crollato. Una volta ho incontrato un pellegrino che mi raccontava della sua esperienza con il ponte provvisorio. Stava percorrendo la Via Francigena, ma non si era fatto traghettare in barca sul Transitum Padi convinto di poter passare sul ponte per arrivare a Roma completamene a piedi. Arrivato all’ingresso del ponte di barche le forze dell’ordine gli avevano impedito di passare consigliandogli di chiedere un passaggio in auto o di prendere il treno fra San Rocco al Porto e Piacenza. Ma lui no! Fermo sulle sue posizioni, convinto della propria idea di arrivare a Roma solo e unicamente a piedi, integro nella sua volontà e fermo nella sua determinazione disse: “O vado a piedi o niente!”. E tornò a casa!
Ritrovamenti
In dicembre sono venuto da queste parti per allenarmi sulla riva del fiume, stavo camminando a piedi nudi sul gerale quando ho trovato i resti di una vecchia barca. Ho telefonato a Luigi per chiedergli se potevo farci qualcosa:
“Se il legno è invecchiato immerso in acqua, in ambiente privo di ossigeno, si sarà annerito, potrebbe essere diventato totalmente nero, un colore interessante per farci qualche lavoro”.
“Se con questo sistema ottengo risultati interessanti vado a casa e immergo del legno in un bidone pieno d’acqua”.
“Però ci vogliono centinaia di anni...”
“Ho capito, rinuncio alla stagionatura della legna in ammollo.” Ho disseppellito la centina, era lunga un metro e mezzo e c’erano infilati parecchi chiodi a sezione quadrata. Pensavo che i chiodi a sezione quadrata fossero un’indicazione per dire che la barca era vecchiotta, ma poi mi han detto che vengono normalmente usati per le barche. Magari non è vero, ma non mi sono più informato.
Perché vengano usati i chiodi a sezione quadrata invece che a sezione tonda non lo so. Magari non è neanche vero. Continuo a essere dubbioso...
Ho caricato la centina in orizzontale sopra lo zaino e ho continuato l’allenamento, quando mi sono riavvicinato alla civiltà ho però pensato che forse non era il caso di camminare con un legno pieno di chiodi in orizzontale sulle spalle e l’ho portato a mano...
Ostacoli sulla Via Francigena
Supero il ponte e giro verso l’argine maestro sulla riva destra del Po, voglio evitare la città.
Lascio Piacenza e cerco la Via Emilia. Sto per attraversare un grosso incrocio quando la gamba destra si trasforma in un blocco di cemento, un
crampo devastante mi paralizza appena prima di attraversare. Già mi danno fastidio i crampi ai polpacci, figuriamoci quelli alle cosce. Soffro terribilmente come se fossi stato colpito da un Panzerfaust, mi appoggio alla bici evitando di contorcermi nelle maniere più diverse e trattengo le urla con fatica. Il dolore è bestiale, mi impedisce di muovermi. Penso però che
se quel malefico crampo mi avesse colpito cinque metri più avanti adesso il differenziale di un TIR mi starebbe pettinando la barba e mi avrebbe forse anche graffiato la vernice della Goat. Che dire? Sono stato fortunato.
Se mi fossi allenato un po’ a pedalare forse rischierei meno crampi. Avevo messo in conto questo rischio e i miei timori sono stati confermati, avrò percorso poco più di cinquanta chilometri e mi sono già crampato le gambe due volte. Ho superato da poco Piacenza, entro in una pista ciclabile che mi porta fuori strada. Era troppo bella una pista ciclabile che andava dove volevo io! La pista ciclabile non c’è mai e quando c’è va dove vuole lei, cioè da un’altra parte! Torno indietro, attraverso una striscia di terra larga pochi metri che mi separa dalla strada e mi aiuta a risparmiare un centinaio di metri. Vedo che non arriva nessuno e spingo la bici sulla carreggiata scendendo dal cordolo. Affronto il gradino alto una spanna fra la terra e l’asfalto controllando il carrello con cura, il salto del cordolo però è molto alto e non riesco a far scendere le ruote tenendole perfettamente perpendicolari al cordolo, cerco di fermare il carrello, ma è troppo lontano, tengo la bici, ma non serve a nulla: il carrello si ribalta!
Il carrello ha le aste di traino a spalla in posizione verticale, arrivano a circa un metro e mezzo di altezza, se si ribalta diventa molto ingombrante. Se un’autista se lo trova davanti può allarmarsi e quindi frenare o sbandare per cercare di evitarlo. Non ci sono auto in arrivo, mi lancio a rialzare il carrello. Sono in una posizione scomoda e pericolosa in cui non vorrei proprio trovarmi, non riesco a rimetterlo in posizione facilmente. Mentre sistemo il carrello si ribalta la bici, con due sole mani non ce la posso fare.
Prima appoggio la bici e poi sistemo il carrello, un pezzo per volta e tutto torna a fare il suo mestiere. Cosa mi sarebbe costato tornare indietro cento metri per evitare il gradino???
Alla fine del viaggio in bici devo però dire che il carrello non si è più ribaltato e non ho avuto incidenti, non ho mai corso il rischio di mettere in pericolo nessuno. In realtà la Graziella e il carrello sono meno pericolosi di quanto possa sembrare dalle mie farneticazioni.
Alla ricerca di un posto da pellegrino
Telefono a Chiaravalle della Colomba per chiedere ospitalità, l’ostello è pieno. Mi spiace non poterci andare, ma sono contento di sapere che c’è gente in cammino. Chiamo allora l’ostello parrocchiale di Fiorenzuola, c’è posto e mi dirigo là. Mi accoglie una signora gentilissima che registra la mia presenza verificando che io abbia la Credenziale, senza la quale non avrei diritto di chiedere ospitalità nell’ostello riservato ai pellegrini.
La Credenziale è un documento che viene rilasciato da organizzazioni che promuovono le vie di pellegrinaggio, serve a dimostrare che stai seguendo il cammino e che non cerchi solo ospitalità a buon prezzo. Detto in altre parole che non sei solo uno scroccone. Nell’ostello ci sono già tre francesi.
Fa piacere vedere che negli ultimi in questi anni le cose si siano evolute, la volta scorsa quando chiedevo ospitalità la gente mi credeva un marziano perché andavo a Roma a piedi, oggi tutti sanno di cosa sto parlando e ci sono altri in cammino. Sono soddisfatto, molto soddisfatto, non mi aspettavo di arrivare fin qua. Prima di partire mi ero detto che se a piedi posso percorrere quaranta chilometri al giorno e in bici ne posso fare un centinaio, con una Graziella ne avrei potuti ipotizzare sessanta. Oggi ho superato di poco questa media, posso dire di aver cominciato bene. Però ero in pianura su strade che conosco.
Didier Tronchet scrive così nel suo “Piccolo trattato di ciclosofia” quando esprime l’orgoglio del ciclista:
“Il ciclista, ritto come una “I” sulla sua bicicletta olandese, sfoggia un portamento da aristocratico britannico o da ufficiale dell’esercito delle Indie. La tranquilla maestosità del suo veicolo si trasmette a lui per osmosi. Da questo insieme strettamente correlato uomo-macchina si irradia un incontestabile senso di nobiltà.”
Se questo è vero con la bici in genere lo è ancora di più con la Goat che, diversamente da una bici da corsa o una bici da montagna offre una postura ancora meno protesa, ancora più eretta che dice “Sto bene come sto, senza bisogno di prostrarmi verso la meta da raggiungere.”
Il ciclista Goat è come le vedette sugli alberi maestri delle navi, come i generali durante le grandi manovre, come gli esploratori davanti alle distese sconfinate, come le scolte sulle torri di guardia... Guarda lontano e quando pensa di guardare lontano guarda ancora più lontano, oltre l’orizzonte infinito... Inoltre mi sembra che la possibilità offerta dalla Graziella di tenere la colonna vertebrale in verticale sia un vantaggio, penso che sia decisamente migliore della tradizionale prostrazione in avanti che favorisce il mal di schiena. Va a discapito delle prestazioni, ma evita di doversi inchinare in avanti. Invece no! Qualcuno mi ha detto che è più consona la posizione protesa in avanti anche per chi ha mal di schiena, perché la schiena in verticale accusa tutti i colpi, mentre li sente meno se è protesa in avanti. Comunque il manubrio alto rende la Graziella molto più comoda di quanto pensassi, anche su lungo percorso. Sia durante la pedalata, sia spingendola in salita, soprattutto impugnando le corna fissate al manubrio. Diversamente dalle altre bici non è necessario inchinarsi per adorare il manubrio mentre si pedala. Dicevo... “bici da montagna”, certo! Non c’è bisogno di chiamarla “mountain bike”, l’italiano è una lingua ricca ed evoluta, non è sempre necessario usare termini di altre lingue e poi gli italiani in fatto di bici e di montagna hanno molto da dire...
Sentite come riempie bene la bocca, provate a dirlo ad alta voce: BICI DA MONTAGNA, si conclude con la bocca aperta nell’ultima vocale. Non “Mountain bike” che non si sa mai se dire “muntan baik”, “mountain baik” o “mountein beik”. In ogni caso si ingarbuglia la lingua e non esce mai quel che uno pensa di dire, a volte ne esce qualcosa che in alcuni dialetti ha dei doppi sensi.
In questi giorni Roberto è in Kenia e manda agli amici i racconti delle sue esperienze. “Sono tornato ieri da un periodo vissuto con i Masai. Sono arrivato là dopo un lungo viaggio... non tanto di spazio, ma di tempo. Diciassette ore con l’angosciante sensazione che il mio ospitante avesse l’unico interesse di mungermi come una magra mucca della savana. Arriviamo a bordo di una moto che, nella notte, divora la polvere della strada di terra battuta in mezzo alla savana. Sulla moto siamo in tre, io sono il più esterno e a ogni buca rischio di capottarmi trascinato dal peso dello zaino. La musica tamarra, sparata dagli speaker della moto, fa da sottofondo mentre facciamo lo slalom fra i cespugli spinosi. A un certo punto la moto ci scarica in mezzo al nulla, dovremmo esser arrivati a Naudot, località Masai a un paio d’ore di cammino dall’insediamento di Miles46, a una distanza indefinita a ovest di Kajiado. La moto si allontana mentre il mondo sprofonda in silenzio assordante, più intenso di quello di grotta che ben conosco. Un silenzio che non risuona in un luogo chiuso, ma si spande maestoso in un infinito protetto dall’oscurità. Sotto un impressionante cielo più stellato di come io lo abbia mai visto. Entriamo chini nel calore fumoso di una piccola capanna di legni intrecciati e sterco di vacca, in cui un numero indefinito di persone dorme. Il fumo, che annerisce la luce del piccolo fuoco al centro della piccola stanza, viene filtrato solo dai nostri polmoni perché non ci sono camini. Il corpo sembra ribellarsi; lacrime e muco tentano di proteggere inutilmente il raschiare della gola. La giovane moglie viene svegliata. Obbediente e assonnata ci prepara lentamente la cena: un insipido tocco di polenta bianca e un bicchiere di latte. Dormo fuori dalla casa, sotto il cielo, cullato da un vento impetuoso. Ci si sveglia poco prima dell’alba raggiante, si beve un “chai” (tè) bollente nel caldo buio e fumoso della capanna, poi si accompagnano ovini o mucche a quasi un’ora di distanza a bere. L’acqua è estratta da enormi buche, profonde svariati metri, scavate a mano, nel letto secco e sabbioso di un torrente, fino a raggiungere il livello della falda, ne affiora un’acqua grigia. In alcuni giorni, con l’asino, ci si reca alle buche e si riempiono le taniche che un tempo contenevano olio alimentare o da motore. Quella sarà l’acqua che berremo e con la quale cucineremo. Il pasto lo si consuma nella casa più vicina, che si trova dove si stanno pascolando gli animali. Al tramonto si torna a casa...”.
Puoi rileggere le puntate precedenti del Viaggio in Graziella sulla Via Francigena:
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Ultimi commenti
Oggi con una ebike si possono fare dei percorsi impegnativi fisicamente (per una bici senza motore) ma per quanto riguarda la tecnica non tutti possono fare dei giri tecnicamente difficili.
Io, con i miei 67 anni, cerco giri fino a 1500 m di dislivello, ma non troppo difficili tecnicamente per potermi gustare pienamente i paesaggi e i posti, senza dover rischiare su single trail esposti.
Grazie Enrico